Émile Henry, Colpo su colpo (Casa Editrice Vulcano, 1978)
Sono disponibili in distribuzione alcune copie della prima edizione italiana del libro Colpo su colpo, pubblicato nel 1978 dal compagno Giovanni Luigi Brignoli (1928–1997) per le sue edizioni Vulcano, e contenente una biografia di Émile Henry, due lettere, il resoconto del processo, gli aforismi, un’appendice.
Il libro, dal 2013 disponibile in opuscolo per le Edizioni Anarchismo, è di grande importanza per poter conoscere l’azione e la vita di Émile Henry, quindi per approfondire quanto concerne la propaganda con i fatti e l’illegalismo anarchico. Dalla prefazione: «Disgustato dall’ingiustizia e dall’oppressione, Émile Henry non ha potuto accettare di rimanere testimone passivo della sua epoca: “Tra la beatitudine dell’incoscienza e l’infelicità del sapere, io ho scelto».
Contenuto del volume:
— “La Java des bon enfants”
— Prefazione
— Biografia
— Lettera ai compagni de “L’Endehors”
— Lettera al direttore della Concergerie
— Il processo
— Aforismi
— Appendice
— Bibliografia
Émile Henry
Colpo su colpo
Casa Editrice Vulcano, Bergamo, 1978.
175 pagine.
Per richieste e contatti: malacoda@distruzione.org
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Lettera ai compagni de “L’Endehors”
Compagni de “L’Endehors”,
Leggo nel vostro ultimo numero un articolo del compagno Malatesta, intitolato “Un po’ di teoria”.
Vi prego di voler inserire queste poche righe di riflessioni personali in merito.
Il compagno Malatesta, dopo aver sviluppato l’imminenza e la necessità di una rivoluzione violenta, e considerato che il ruolo degli anarchici è di contribuire alla sua prossima venuta, dice che “ogni atto di propaganda o di realizzazione, con la parola o con il fatto, individuale o collettivo, è bene quando serve ad avvicinare e facilitare la Rivoluzione…”.
Parlando poi di atti di rivolta ispirati dall’odio risultante da lunghe sofferenze subite dal proletariato, Malatesta aggiunge che comprende e perdona questi atti, ma che: “Una cosa è comprendere e perdonare, un’altra rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite imposto dalla necessità. Dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze…”.
Farò osservare al compagno Malatesta che questa parte del suo articolo è per lo meno strana per la penna di un anarchico.
In effetti, cosa vogliono gli anarchici? L’autonomia dell’individuo, lo sviluppo della libera iniziativa, che, sole, potranno assicurargli la felicità; se diventa comunista, è per semplice ragionamento, perché comprende che solo attraverso la felicità di tutti, liberi e autonomi, come lui, troverà la sua propria.
E tuttavia, cosa vuole Malatesta?
Restringere questa iniziativa, intaccare questa autonomia, dichiarando che gli atti di un uomo – per quanto sincero e convinto egli sia – non sono da accettare, né rivendicare, quando superano il limite imposto dalla necessità.
Ma chi dunque può giudicare quando il limite è stato superato? Chi può garantire che tale atto è utile alla Rivoluzione, mentre tale altro le nuoce?
Dovranno forse i futuri Ravachol, prima di rischiare la propria testa nella lotta, sottomettere i loro progetti all’accettazione dei Malatesta eretti a Gran Tribunale, che giudicheranno l’opportunità o l’inopportunità degli atti?
Diciamo al contrario questo:
Quando un uomo, nella società attuale, diventa un ribelle cosciente del suo atto, – e tale era Ravachol – è perché il suo cervello ha fatto un lavoro di deduzione che abbraccia tutta la sua vita, analizzando le cause delle sue sofferenze; lui solo può giudicare se ha ragione o torto di provare odio, di essere selvaggio, “e perfino feroce”.
Noi stimiamo, per quanto ci riguarda, che gli atti di rivolta brutale come quelli che si sono verificati, e che sono all’origine della polemica esistente tra “anarchici” e “terroristi” – stile Merlino – stimiamo, dicevo, che questi atti sono giusti, perché risvegliano la massa, la scuotono come una violenta frustata, e le mostrano il lato vulnerabile della Borghesia, ancora tutta tremante al momento in cui il Ribelle cammina verso il patibolo…
Capiamo perfettamente che tutti gli anarchici non abbiano il temperamento di un Ravachol.
Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta.
Perciò non ci stupiamo di vedere dei rivoluzionari fare ogni sforzo su un punto preciso per esempio, come i compagni Merlino e Malatesta, sul raggruppamento dei proletari in associazioni bene organizzate.
Ma non riconosciamo loro il diritto di dire: “Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori da essa non vi è salvezza”. È un vecchio rimasuglio di autoritarismo che non vogliamo sopportare, e faremmo presto a dividere la nostra causa da quella dei pontificatori o aspiranti tali.
Inoltre, il compagno Malatesta ci dice che l’odio non genera l’amore.
Noi gli rispondiamo che è l’amore che genera l’odio.
Più amiamo la libertà e l’eguaglianza, più dobbiamo odiare tutto ciò che si oppone al fatto che gli uomini siano liberi ed eguali.
Sicché, senza perderci nel misticismo, poniamo il problema nel campo della realtà e diciamo:
È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni; cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la Rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste Rivolte particolari.
Compagni, l’argomento comporterebbe lunghi sviluppi, ma spero che queste poche righe basteranno per far riflettere i compagni capaci di farsi influenzare da un nome conosciuto come quello di Malatesta.
A voi e all’Anarchia!
Émile Henry
[Pubblicato su “L’Endehors”, n. 69, 28 agosto 1892].
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Recensione: Émile Henry, Colpo su colpo (Casa Editrice Vulcano, 1978)
Una raccolta contenente una biografia di Henry, due sue lettere, il resoconto del processo, alcuni aforismi, e un’appendice con una interessante lettera di Malatesta.
Il volumetto, occorre dirlo subito, presenta un problema che supera di gran lunga lo stupido barcamenarsi degli storici, anche degli storici dell’anarchismo: il gesto di Henry fu qualcosa di spaventoso, qualcosa che scosse non soltanto la cosiddetta “opinione pubblica”, ma anche i compagni. E la lettera di Malatesta, inserita nell’appendice, è un esempio di queste perplessità, colte dall’anarchico italiano e giustificate in un certo modo, mettendo avanti la solita cautela, quella stessa cautela che pochi anni prima aveva fatto gridare al “provocatore” nei confronti di Ravachol a gente come Grave e come Kropotkin.
Ma, andiamo con ordine.
Non è per nulla vero che il gesto di Henry si inserisce nella catena di attentati e di attacchi che gli anarchici “fine secolo” realizzarono contro le istituzioni e i loro rappresentanti. Il gesto di Henry opera un “salto di qualità” che venne colto, seppure nebulosamente, anche dai compagni che in quel momento si trovavano a lottare contro la repressione.
Questo giovane, colto e intelligente, opera con freddezza una decisione che altri avevano maturato e compreso, ma non realizzato: attacca la borghesia, non questo o quel rappresentante dell’istituzione Stato, questo o quel poliziotto, magistrato, carnefice, aguzzino, spia o traditore, no: tutta la borghesia. Egli colpisce nel mucchio, senza discriminazioni. Sceglie con cura uno dei posti che questa classe frequenta, vi si reca con il suo ordigno infernale, accende la miccia, lancia la bomba e se ne va.
Di più, cerca anche di sfuggire alla cattura. Non è un martire, è un guerrigliero, non vuole sacrificarsi, vuole continuare nella sua lotta, vuole continuare a colpire nel mucchio. Per far questo fugge, cerca di coprirsi la ritirata, spara per difendersi, finché non cade prigioniero nelle mani del nemico. E qui, una volta preso, non chiede pietà, non si chiude in un mutismo del resto anche giustificabile: fa del processo una tribuna per spiegare e illustrare il suo gesto contro tutti (compagni compresi) e contro tutto. Non cerca attenuanti, non parla di “errori”, ma dice chiaramente che ha inteso colpire proprio nel mucchio, senza preventiva discriminazione, perché proprio nel mucchio si annidano quei colpevoli dello sfruttamento che sono meno individuabili, i rappresentanti di quella classe bottegaia, perbenista, codina, sanfedista, pronta ad accorrere nelle piazze dove si ghigliottina, pronta a battere le mani a qualsiasi sottoprodotto napoleonico, pronta a mettere il proprio sostegno sotto i piedi del dittatore di turno.
Nel gesto di Henry è inclusa un’analisi del concetto di classe. Non tanto nelle sue lettere o nello stesso dibattito processuale, ma proprio nel gesto in se stesso. Il comportamento collettivo della classe borghese comprende, in forme ben delineate, in quanto classe al potere (o diretta sostenitrice del potere) una coscienza di classe ben adeguata alle reazioni specifiche dei rapporti di forza (ideologici ed economici). La classe borghese sa quello che vuole, e la frangia bottegaia lo sa anche meglio della media e alta borghesia. E questa coscienza di sé la estrinseca anche nel passatempo, nel divertimento, nello scegliere un caffè, un ristorante, un bordello, una crociera, un luogo di vacanza. La selezione che si opera in questi posti non è solo determinata dal prezzo dei prodotti, dei servizi e di quello che occorre avere con sé per recarvisi, ma è determinata dalla stessa aria che vi si respira, dall’atmosfera che vi è stata creata “apposta”, dalla scelta delle bardature, dei ninnoli, dei quadri, degli specchi, dei bicchieri e della moquette. Un proletario – anche oggi, con tutto l’inquinamento che è stato causato dal consumismo imperante – raramente metterebbe piede al Caffè Greco a Roma, e se per errore vi capitasse dentro ne fuggirebbe ben presto, non tanto perché spaventato dai prezzi che vi si praticano, quanto perché estraniato da quell’atmosfera che vi è stata creata e che si sente come qualcosa di solido, un’atmosfera che solo con una valutazione superficiale può essere riportata alla necessità del capitale di “vendere”. Qui non si tratta di quei luoghi di massa dove si sacrifica al dio “merce”, si tratta di altri luoghi, più intimi e raccolti, dove il sacrificio alla religione della “merce” è fatto in forma più raffinata, in forma accessibile solo a pochi, in forma che opera una selezione automatica e che trova riscontro – quasi perfetto – nell’adeguarsi della coscienza di classe borghese alla situazione dei rapporti di forza oggi in campo.
Non si venga a dire che la situazione storica di fine Ottocento era diversa della presente e che allora questi posti erano ben più precisamente “isolati” di quanto non accada oggi, proprio perché la borghesia ancora all’apice dello sfruttamento coloniale si sentiva sicura di sé e voleva autogratificarsi anche con bordelli e caffè oltre che con chiese e monumenti alla vittoria. Anche oggi, in fase di profonde trasformazioni sociali, la borghesia mantiene una certa coscienza di sé, almeno quelle fasce che non sono state risucchiate irrimediabilmente nel baratro della criminalizzazione a seguito delle difficoltà, per il capitale, di mantenere un livello sufficientemente sicuro di occupazione. Ma quelle altre fasce, quelle garantite, quelle che si sono anche ingrossate con l’accesso di altri gruppi – prima proletari – oggi sono il nucleo reazionario più coerente e più difficile a smuovere. E questo nucleo, questo coacervo d’interessi e di squallore, di linguaggio gergale e di stucchevoli imitazioni di passati splendori, questo nucleo si ritrova ancora negli stessi posti, negli stessi caffè, negli stessi bordelli.
Ecco. La cosa più umoristica (e tragica, nello stesso tempo) è che questo nucleo reazionario ha assunto gli atteggiamenti del progressismo parolaio della cosiddetta sinistra, e per meglio solidificare la coscienza del proprio status sociale ha rigettato le vesti sorpassate di una reazione che si vestiva di nero (e che oggi farebbe ridere) per indossare le vesti di una reazione che si veste di rosso e che non fa più ridere ma mette paura.
Ecco. Colpire nel mucchio, oggi, a tanto tempo dal gesto di Henry, non solo sarebbe un gesto valido ma sarebbe anche un contributo teorico al movimento, ancora una volta, un salto qualitativo.
Malatesta scriveva: “Una cosa è comprendere e perdonare, un’altra è rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Noi dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità. Noi dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze: in una parola, dobbiamo essere ispirati dal sentimento dell’amore degli uomini, di tutti gli uomini”.
Amore o odio. L’alternativa è errata. Nello scontro di classe non si può sentire amore per il proprio nemico, i sentimenti che possono stimolare questo amore sono quelli della reazione comune agli stessi stimoli della classe, cioè il sentirsi non solo partecipi della stessa classe del nemico ma il sentirsi interessati alle stesse cose e agli stessi ideali, in caso contrario, quando il nemico si vede come tale – come nemico di classe – e i suoi interessi e i suoi ideali non si condividono, ma anzi suscitano disgusto e sdegno, il risultato può essere uno solo: l’odio.
Ed Henry rispondeva: “È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni; cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la Rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste Rivolte particolari”.
[A. M. Bonanno]
[Recensione a É. Henry, Colpo su colpo, Casa Editrice Vulcano, Bergamo, 1978, 174 pagine, pubblicata su “Anarchismo”, n. 23-24, 1978; presente anche in É. Henry, Colpo su colpo, Edizioni Anarchismo, Trieste, 2013].