Uno scritto di Natascia dal carcere di Piacenza
Un anno e tre mesi sono passati dal giorno del nostro arresto, il 21 maggio 2019, e, forse un po’ in ritardo, è sorta per me la necessità di scrivere due righe pubbliche, dopo le migliaia di pagine private, su tutta questa faccenda.
Per prima cosa mi preme ringraziare le decine di compagni che, in un modo o nell’altro, sono stati per me (lontani ma) presenti durante questi mesi, foss’anche solo con una cartolina: la consapevolezza che fuori da queste mura continui ad esistere il mondo che ho lasciato, con le sue contraddizioni ma anche con il suo carico di slanci e passioni, mantiene in vita, se non organicamente, sicuramente dal punto di vista emotivo e intellettuale. Purtroppo non è stato (e non è) un percorso detentivo “facile” (se mai ne esistano), tra l’estradizione, L’Aquila e l’AS3, ma in nessun momento ho sentito di perdere contatto con il mondo esterno, i dibattiti, la lotta, e di questo posso solo ringraziare i compagni che si sbattono e le persone che mi amano (spesso le due cose coincidono). GRAZIE.
Detto ciò, va ammesso che l’aver scelto di non espormi “pubblicamente” attraverso nessun mezzo, perché non è mia abitudine e perché reputo che in certe circostanze siano i fatti a parlare meglio di qualunque comunicato, per certi versi abbia creato un po’ di confusione, anche e soprattutto in merito all’aspetto tecnico e processuale. Cercherò di rimediare.
— OPERAZIONE PROMETEO
Il capo d’accusa che ci viene contestato è il 280 del codice penale: “attentato con finalità di terrorismo”, più una sequela di aggravanti come il concorso e, di nuovo, la finalità di terrorismo (come si applichi l’aggravante di terrorismo ad un reato con finalità di terrorismo è un’astrazione giuridica che ancora non mi è chiara). Niente associazione, niente porto d’armi da guerra, ma l’attentato viene definito “micidiale”, ovvero si qualifica come “attentato alla vita”; la pena parte dai 20 anni, aumentati di un terzo perché “rivolto contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie”.
Il teorema inquisitorio ha ben poco di concreto: gli inquirenti sostengono di aver localizzato il negozio cinese nel quale sarebbero state vendute le buste utilizzate per il confezionamento degli ordigni (nonostante i saggi grafici cui sono stati sottoposti tutti i dipendenti non collimino con la scrittura che compare sui plichi ricevuti) e possiedono una ripresa di una telecamera di sorveglianza della piazza antistante il negozio in cui Beppe ed io siamo ripresi a uscire dal medesimo. Tutto qua. Usciamo dal negozio senza avere in mano gli acquisti contestati, nessuno scontrino emesso in quell’orario coincide con i prezzi del materiale che si vorrebbe acquistato, nessuna traccia di impronte digitali o DNA, nessuna confessione rubata con intercettazioni ambientali o telefoniche. Ma si sa, due anarchici che fanno compere in un negozio cinese, a due passi dall’abitazione di uno dei due, nella città in cui SI IPOTIZZA e nel momento in cui SI IPOTIZZA che siano stati confezionati gli ordigni… è più che sufficiente.
Per concludere, una ricerca informatica effettuata a Genova sugli indirizzi dei destinatari dev’essere opera del terzo compagno che trascorreva il weekend in quella città con loro, Robert. Quest’è, né più, né meno.
Ora, che le procure di mezza Italia amino fare castelli in aria è risaputo, questa volta in aggiunta alla solita mancanza di concretezza hanno sfoderato la vena epica e letteraria. Il mito di Prometeo è noto ai più: ruba il fuoco (la conoscenza) agli dei per farne dono agli uomini, e perciò viene punito. Chi in questa rappresentazione si appropri della e si autoassegni la parte di dio, è evidente. E se su certi sacri ruoli non va posato nemmeno lo sguardo, figuriamoci l’impudicizia di far loro arrivare un messaggio così chiaro come una busta farcita di polvere pirica. Stereotipica di Prometeo è l’IRRIVERENZA. Egli profana un monopolio, in questo caso quello della giustizia, che non compete agli uomini, e la prometeica punizione è più che severa, è fatidica. E dunque, a prescindere dall’inconcretezza degli indizi, qualcuno va punito, e se sono degli anarchici tanto meglio.
Ad oggi, nessun legislatore ha osato scalfire il sovradimensionamento né l’inconsistenza dell’accusa, d’altronde è nientemeno che dagli dei che arrivano le direttive, e Prometeo è di monito a tutti, servi compresi.
— 2 PICCIONI CON 1 FAVA
L’anarchico, inutile dirlo, ha il fisique du rôle: nel disegno iperbolico degli inquirenti capita a fagiuolo. E infatti, il 90% delle cartacce cui ho avuto accesso (inutile dire che gli atti completi mi sono preclusi, visto che si tratta di più di 200.000 pagine e il carcere dimmerda in cui sono capitata non è attrezzato per consentirmi l’accesso al formato digitale) è la solita solfa su cui imperniano TUTTE le operazioni in chiave antianarchica degli ultimi anni: criminalizzazione della solidarietà, dei rapporti affettivi, travisamento delle opinioni, fantasie morbose da incasellamento questurino.
Lungi da me volermi lanciare in un afflato vittimistico: l’anarchico dello stato è nemico, con l’autorità in guerra e, si sa, in amore e in guerra tutto vale. Non mi aspetto tenerezza, e sono profondamente convinta che l’espressione “un giusto processo” non sia altro che una circonvoluzione a metà tra l’ossimoro e la sinestesia. Ma è bene, a fini d’analisi, parlare anche di questo. Sulla base delle sparate di Sparagna estrapolate direttamente dagli atti del processo Scripta Manent, i ROS dedicano non poche pagine a quello che vorrebbe essere un diagramma linneano della storia dell’anarchismo, cercando a tutti i costi di inquadrare ciò che inquadrabile non è (e partono nientemeno che da Bakunin… che onore!), e di comprendere ciò che, inutile dirlo, compreso non verrà mai dentro alle mura di una questura.
Allo stesso modo viene trattata la solidarietà ai prigionieri, che in questo caso assurge direttamente a movente, essendo uno dei riceventi le buste incriminate Santi Consolo, ex direttore del DAP. E così interessarsi alle sorti di un compagno, o addirittura di un amico, incappato nelle maglie della giustizia, è fattore incriminante; persino inviare una cartolina (firmata) a chi è detenuto assume l’aura del sospetto.
Altro capitolo intero, se non pensassi di starmi già dilungando troppo, si potrebbe dedicare a quella che viene definita “l’analisi della personalità degli indagati”: i toni passano da fantasiosi a paradossali, letteralmente. La partecipazione a un dibattito acceso e attuale (e non solo in seno al “movimento”) come quello sulle tecniche forensi e d’indagine, in particolare sull’utilizzo del DNA e sulla creazione di una banca dati genetica nazionale e internazionale, si trasforma come per magia nell’ossessione del colpevole, assillato dalla costante paranoia di venire arrestato; ogni parola catturata dai microfoni viene letta come criptica (si sa, sono furbi questi anarchici! Quando dicono “Prendiamoci un caffè” in realtà vogliono dire: “Chi porta il C-4?”); svarioni filosofico-esistenziali senza capo né coda, cui nemmeno i diretti interessati saprebbero dare un senso, offrono lo spunto per interpretazioni di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. E qui mi fermo perché, letteralmente, potrei andare avanti ore, ma dal paradosso non ci sono conclusioni logiche da trarre.
Infine:
— SUI TERMINI DI CUSTODIA CAUTELARE
Parecchie volte, ultimamente, mi è stato domandato per corrispondenza: “Ma come? E i tuoi termini non scadono più? Non esci?”. Giusto per chiarire: il termine indicato dal codice penale per questo tipo di reato è di 1 anno, ovvero avrebbe dovuto scadere il 21 maggio 2020. Ma poi, a marzo, il Covid. A quel punto escono, a distanza di circa un mese, due Decreti Presidenziali che prorogano di poco più di 30 giorni ciascuno TUTTE le scadenze e le prescrizioni. La GIP di Milano, ad oggi non saprei spiegare il perché, tiene in considerazione solo la prima proroga, e fissa allo scadere del 90° l’udienza preliminare, che congela definitivamente i termini, il 22 giugno.
Nel corso dell’udienza si sentenzia l’incompetenza territoriale della procura milanese in favore di quella di Genova, tutti gli atti vengono inviati a nuovo giudice e… sorpresa! Il conteggio dei termini di custodia cautelare riparte da zero!
Si è poi svolta una prima udienza preliminare a Genova il 29 luglio, con rinvio all’11 novembre. Il ché significa che quando avremo fatto 18 mesi di carcere preventivo sapremo, forse, quanto tempo passerà ancora prima che inizi il processo. Quest’è. Vi rimando alle considerazioni di cui sopra in merito al “giusto processo”.
E su questi tecnicismi chiudo questa lunga ma doverosa disquisizione, con l’idea di renderla “pubblica” attraverso i soliti canali. Molte altre cose vorrei aggiungere, ma non è questa la sede.
Un abbraccio fraterno a tutti i compagni, compreso mio padre, uno più stretto a quelli rinchiusi.
In ogni caso, nessun rimorso.
Salud y Anarquìa,
Nat
Ricevuto via e-mail, agosto 2020.