Il gabinetto nel ghetto
Una bella foto ricordo, non c’è che dire. Il 12 maggio al «ghetto» ebraico di Roma c’erano tutti, ma proprio tutti. Cioè non proprio, in piazza non c’era quasi nessuno, giusto qualche decina di galoppini, scudieri, portaborse e fotografi. A dimostrazione che oggi la politica è un gabinetto di generali senza eserciti, o un teatro senza spettatori, se preferite l’analogia con la recita pandemica nazionale.
Ma sul palco c’erano tutti, i generali, i politici. Da Salvini al segretario del PD Letta, dal Migliore dei venduti all’ex ministro di Confindustria… pardon… dell’industria Calenda. Tutti a difendere «il diritto di Israele di esistere». Una bella dimostrazione pratica che l’Unità Nazionale non è solo una manovra di palazzo, ma è viva nelle piazze e si mobilità per la guerra. Una bella istallazione artistica nella Roma postmoderna: il Gabinetto di Draghi impiantato nel ghetto ebraico, con tanto di élite politica galleggiante. Addirittura c’era pure l’opposizione, i post-fascisti con la kippah! Eh già, allo Stato di Israele è giunto persino il «saluto romano» del camerata Lollobrigida a nome dei Fratelli d’Italia.
Grande la strada che ha fatto la destra italiana sulla via del progresso e della civiltà. Ieri gli ebrei li metteva al forno, oggi difende il loro diritto di sterminare altri popoli. Il Filosofo ufficiale del regime fascista, Gentile, sarebbe orgoglioso di questo salto dialettico. A dimostrazione che il fascismo come diceva Mussolini non è ideologia – e ci pare di averla sentita anche di recente questa cosa sulla critica delle ideologie – ma azione. Scordiamoci il passato, chiunque si comporta da fascista merita la solidarietà dei fascisti!
Eppure, lo spettacolo più triste questa volta non lo ha dato la politica, ma lo ha dato proprio l’autoproclamatasi «comunità ebraica». In nome della deportazione, dell’apartheid, delle torture e della guerra ai palestinesi, i sionisti romani hanno persino rinunciato alla prescrizione di astenersi dal maiale, aprendo le porte del ghetto a porci di ogni stazza e colore.
Cosa ne avrebbe pensato Walter Benjamin, filosofo del messianismo rivoluzionario? Le sue riflessioni, non tanto sulla Fine del Tempo, come amava dire, ma sul Tempo della Fine, avrebbero retto di fronte a cotanto spettacolo? Sarebbe ancora stato convinto che ogni generazione ha la possibilità di essere la generazione messianica? Che la rivoluzione è possibile a ogni tappa della Storia, che la piccola porta è sempre socchiusa e la valigia è sempre pronta per il rivoluzionario? Se Benjamin potesse tornare per assistere a questo spettacolo, dai massacri in Palestina ai fascisti nel ghetto, non per un raid, ma per una manifestazione di amicizia… forse tornerebbe solo per suicidarsi un’altra volta.
Eppure questo tempo tristo, tempo di epidemie e di crisi, tempo di guerra e di rese, forse è proprio questo il Tempo della Fine. È il tempo nel quale vivere la tensione rivoluzionaria, l’insurrezione della Storia, la fine del mondo del dominio.
Per farlo però c’è un nodo irrinunciabile. Questo è il nodo dello Stato. Nessuna liberazione senza la liberazione dallo Stato, da qualunque Stato. Al piagnisteo palestinese sul motto «due popoli, due Stati» e a quello sionista sul diritto del loro Stato di esistere, da anarchici rispondiamo risoluti: nessuno Stato ha diritto di esistere. Ogni Stato esiste non per il «diritto», ma per la forza. Solo la forza lo tiene in vita e solo la forza lo abbatterà.
Qoèlet