«La prigionia non deve smuovere indignazione». Riflessioni di Anna e Marco
Il desiderio e la carenza di analisi non ci devono per forza condurre ad una chiave di lettura univoca su quel che accade e sulle ricette per porvi rimedio. Quelli che seguono sono solo alcuni spunti, per esperienza diretta, a partire da quanto scritto da alcuni compagni/e, dentro e fuori le carceri, per mantener viva la discussione e cercando di evitare di avvitarsi in iper-analisi ma volando basso.
— Su carcere e repressione
Carcere e repressione sono sicuramente campi di intervento parziali rispetto alla varietà di quelli appetibili per il movimento anarchico attuale. Non si tratta, per chi scrive, di farne un iconico oggetto di lotta, ma di ragionare su di uno sgradevole, si spera evitabile, ma non sempre è così, «compagno» di strada.
Parziali… ma ineludibili nel senso che si può scegliere di concentrarsi su tematiche specifiche ma al capolinea quello che ci si trova di fronte è, a volte il carcere, più spesso misure repressive di controllo e prevenzione.
È altresì riduttivo e indice di sfiducia nelle proprie pratiche, ignorare che i contraccolpi repressivi siano lo specchio della vitalità delle lotte, al di là di oziose e risibili classifiche di quanto siano «reali» e radicate le stesse.
È lapalissiano affermare che la repressione sia il contraltare dell’incidenza anarchica attiva nella realtà, quindi rischia di esser ipocrita lamentarsi che la repressione risucchi forze di movimento che, per occuparsi di solidarietà spicciola, disperde così energie che potrebbero esser impegnate per altro.
Le attività informative e di supporto ai prigionieri dovrebbero essere una componente scontata, un corollario al dispiegarsi delle attività e dei progetti in corso, se ci si scoraggia in questo, come affrontare il resto? Si rischia di cadere nell’equivoco di un’eccezionalità degli eventi repressivi, con la ricaduta di eccessi di emotività e stupore di fronte al ciclico presentarsi del conto statale.
Capiamoci… questo non significa rassegnarsi in modo fatalistico alle batoste inflitte, ma prenderle per quel che sono, senza sottovalutare quanto sta succedendo.
In questi tempi di desertificazione dell’opposizione sociale si è sensibilmente abbassata la soglia di tolleranza repressiva, con un’estremizzazione della demonizzazione dei refrattari notevole (se un tempo vigeva lo spettro del sovversivo, del bandito, del comunismo, ora è sostituito dallo spettro del «terrorismo» che affiora ovunque, tra i barconi dei migranti, le piazze in tumulto, ecc) e la conseguente facoltà per i tribunali di snocciolare pene esorbitanti, senza alcun problema.
Non c’è bisogno di leggere questo in chiave brechtiana («prima vennero a prendere gli zingari», ecc.) interpretando la stretta anti-anarchica come prodromica ad una stretta autoritaria diffusa nella società e cercando così la sponda di un consenso/solidarietà allargati.
Consenso e solidarietà che non si disprezzano, ma che si dovrebbero cogliere quando si manifestano realmente nella spontanea presa di coscienza individuale e collettiva.
Poi, al di là delle valutazioni in termini di prevenzione o vendetta, dando per appurato che ci sono entrambe le componenti quando lo Stato si muove per schiacciare i suoi nemici, a volte si sottovaluta l’imperscrutabile «voracità» di schemi repressivi spesso non orchestrati da un’unica regia o strategia centrale, ma da equilibri ed equilibrismi tra uffici, carriere, iniziative locali e nazionali, con le contraddizioni che ne conseguono e che vediamo affiorare nelle varie operazioni.
— Scripta Manent
Il primo grado di S. M. ha prodotto una cinquantina di anni di galera (sui 200 e passa richiesti), cinque condanne su 23 imputati senza che ad oggi sia ancora ben chiaro il disegno accusatorio privilegiato dai giudici: significativa la circostanza che a luglio, dopo aver emesso la sentenza ad aprile, la corte abbia chiesto una proroga di altri tre mesi, per stilarne le motivazioni, ad oggi [settembre 2019] non ancora uscite.
Senza bisogno di leggere le motivazioni di sentenza, basta scorrere quel che è passato in primo grado per cogliere, oltre all’accanimento ad personam indubbio, il fatto che non sia passato il 414 c. p. (per Croce Nera Anarchica nuova edizione) e tantomeno il considerare i giornali come connessi al reato associativo ed al tentativo di «storicizzazione» fatta dai birri ma… l’«associazione» (270bis, associazione sovversiva con finalità di terrorismo) esiste, ha più «promotori» che «partecipi», esiste pure a singhiozzo visto che all’interno del medesimo arco temporale preso in esame dall’inchiesta alcuni degli stessi condannati sono già stati processati ed assolti per gli stessi reati associativi (operazioni Crocenera e Shadow dove, in quest’ultima, il 414 c. p. era passato per il giornale KNO3) e passa la condanna per «strage», 422 c. p. con le «attenuanti generiche prevalenti» (la Crocetta, i cui condannati attuali erano già stati indagati nel 2007/2009 con gli stessi elementi, ovvero essere i redattori del giornale Pagine In Rivolta, con archiviazione conseguente).
Cioè benché fosse proprio la «continuità» tra pubblicazioni – Pagine In Rivolta, Crocenera e KNO3 – a costituire la spina dorsale della teoria accusatoria, con tutte le suddette pubblicazioni come emanazioni dell’associazione sovversiva secondo l’ordine di custodia cautelare del 2016, poi passibili anche di 414 c. p. in occasione dell’allargamento del numero di imputati durante le indagini, questa tesi pare esser contraddetta a legger le condanne emesse.
La sentenza risulta quindi ondivaga, frutto della necessità di condannare, alla bell’e meglio. È evidente per chi ha seguito le udienze processuali e letto gli atti l’asservimento del P. M. alle volontà accusatorie della Digos torinese che ha voluto portare a casa a tutti i costi un risultato, dopo 15 anni di indagini maniacali.
Una volontà locale quindi, magari con il beneplacito dei piani alti nazionali a cui non dispiace avere nel carniere un po’ di selvaggina anarchica, senza sottovalutare neppure i conti spiccioli, in termini di milioni di euro spesi e anni di indagini ed il loro non raccogliere risultati nonostante l’indubbia abbondanza di azioni anarchiche e la loro continuità negli anni.
— Panico
Nel caso fiorentino non è stato usato il reato associativo con finalità [terroristiche o di eversione], ma il 416 c. p. («a delinquere») come collante tra le imputazioni specifiche e, con le condanne di 1° grado emesse a luglio è passata, oltre all’attribuzione di fatti specifici tramite analisi DNA ed intercettazioni ambientali, entrambe di dubbia interpretazione, l’«associazione» con il suo corollario di «capi» e ripartizione di «ruoli», arrivando a condannare con varia intensità 28 compagne e compagni.
— Prometeo, Scintilla e Renata
Nel caso torinese e trentino le costruzioni accusatorie paiono esser già traballanti in sede di Riesame anche se i compagni trentini rimangono ai domiciliari in attesa di processo e Silvia, per Scintilla, è da pochi giorni ai domiciliari, ed un’altra compagna ricercata.
Anche lì giornali di riferimento, opuscoli con la ciliegina del 414 c. p. e accuse associative oltre ai reati specifici qualificati in diversa maniera.
Nell’operazione Renata l’accusa iniziale per 270bis c. p. cade e si trasforma in 270 c. p., in Scintilla cadono il 270 c. p. ed il 414 ed i reati specifici vengono qualificati come detenzione in luogo pubblico di materiale incendiario, dall’inizio.
In Prometeo i tre compagni sono accusati di 280 c. p. (attentato con finalità terroristiche) e non viene contemplato il reato associativo ma viene fatta aleggiare la figura di «ispiratore».
In un simile intreccio, la figura di ispiratore ritorna anche all’interno dell’indagine che riguarda Juan, arrestato a maggio e accusato di 270bis, 280bis e 285 c. p. Tutto questo in concorso con ignoti. DNA, analisi e comparazioni dei testi sono utilizzati anche qui a supporto del teorema d’accusa.
Inoltre dalla lettura del comunicato di Juan di agosto si deduce che, con tempismo alquanto dubbio, Alfredo risulterebbe una fonte di ispirazione con un articolo su Vetriolo del 2019, scritto dopo gli eventi contestati.
Insomma, al di là di codice penale, commi e codicilli ci si deve barcamenare tra accuse associative, con il loro contorno di «capi», «promotori» e «partecipi», ruoli alieni all’anarchia ma inchiavardati in testa a sbirri e legislatori e con qualificazioni via via diverse delle varie azioni, dei compagni/e e della stampa anarchica, nel tempo e nei luoghi.
C’è un disegno univoco in tutto questo? Un’unica strategia repressiva od un rincorrersi di procure, uffici, carriere?
In un certo senso poco dovrebbe importarci, tanto cambia poco, sia che l’input parta dal ministero che da un ufficio di provincia il risultato tende ad essere simile: a volte carcere, sempre controllo e repressione.
In realtà capire se quella del potere esecutivo e giudiziario sia una scelta meditata, condivisa e univoca o casuale, contingente, mossa dai singoli eventi, aiuta a capire come reagirvi, di cosa preoccuparsi, cosa si sottovaluta e sopravvaluta nel nemico, sulla strada della libertà.
A voler essere ottimisti, che a volte non fa male, gli anarchici nella loro stessa mercuriale capacità di aggregazione/disgregazione, nella loro individualità spinta, hanno gli anticorpi per resistere ai tentativi repressivi.
— Una novità?
Da più parti si tende a vedere come qualcosa di «nuovo» quel che sta succedendo, a volte ripetendoselo più per pigrizia mentale, quando forse basterebbe dire che, per contingenze o motivi banalmente anagrafici è la «prima volta» che lo si vive personalmente non la prima volta tout court. La repressione preventiva o punitiva di controllo dei movimenti (fogli di via, sorveglianza speciale, obblighi di dimora e restrizioni) e operazioni coordinate in chiave anti-anarchica sono sempre esistite; dovrebbe stare alle compagne e ai compagni far tesoro delle storie passate e non vivere con la memoria corta, cortissima, inesistente. La novità negli ultimi anni è forse un’altra, differentemente da quanto successo in altre stagioni repressive, in queste latitudini sono le componenti anti-autoritarie, spesso le uniche a mantenere il vessillo della rivolta, ad esser più spesso colpite.
— Su alcuni quesiti assembleari
Sfogliando un po’ di riflessioni post-assembleari pare, a volte, che ci sia un certo senso di smarrimento, indecisionismo cronico nello scegliere come promuovere, supportare o continuare una «lotta» all’interno delle carceri. In alcuni casi sembra che gli input debbano arrivare da dentro, ovvero da chi ha maggior difficoltà contingente a fornirne di puntuali quando è proprio chi ha le mani e gli occhi liberi a poter cogliere meglio i punti di forza da sviluppare ed i limiti in cui ci si rischia di arenare. Chi è in carcere può esser lusingato dall’esser parte attiva di una discussione, ma di rado riesce ad avere il polso della pienezza e vastità della stessa.
È corretto ritenere che la repressione giudiziaria sia la reazione statale, nazionale o locale che sia, alle pratiche di azione diretta e alla loro difesa, al di là che vengano colpiti a caso o meno compagni/e, al di là che si tratti di vendetta per quanto accaduto, di monito per ciò che si vorrebbe scoraggiare o di prevenzione per quanto accadrà… questo a volte può interessarci solo sul piano meramente tecnico/giudiziario.
Che ci sia una gradazione di accanimento repressivo in base all’oggetto delle azioni è un dato di fatto, quantificato dal codice penale (legislazione antiterrorismo, reati ostativi, ecc) e dal dispendio di energie repressive profuse, per cui pare irragionevole porre delle scale di valori (o disvalori che siano) in base a questo. Quindi, sia che si percepisca in maniera «neutra», piuttosto che come un’«offesa» l’accusa di «terrorismo», ci si trova ad affrontare in ogni caso un inasprimento della vendetta statale contro i suoi nemici o presunti tali.
Non è completamente inutile dare un’occhiata fuori dall’orticello anarchico a quanto succede sia in ambito giudiziario che carcerario, nel caso della repressione della cosiddetta «criminalità organizzata» e/o «comune», che viene classificata come «organizzata».
— L’altra sicurezza
Anarchici, comunisti e «islamici radicali» costituiscono una minima parte dei «fruitori» del circuito di alta sicurezza nelle italiche galere: tutte e tre le categorie sono destinate all’AS2. L’istituzione del circuito AS risale al 2009, prima esisteva con le stesse funzioni l’E. I. V., con minore differenziazione interna, ovvero erano mescolati «politici» e «comuni» caratterizzati entrambi da una «maggior pericolosità» che implicava appunto un «elevato indice di vigilanza».
Fino a tre anni fa si mantenevano in AS2 distinti i prigionieri per appartenenza politica, i comunisti con i comunisti, gli anarchici con gli anarchici, gli islamici con gli islamici. Ora questo sta succedendo solo in parte, come si può facilmente dedurre dalle attuali collocazioni ad Alessandria, Rossano Calabro, Bancali, L’Aquila e Terni.
In più, nel caso dell’AS2 femminile, visti i numeri ancor più esigui si verificano casi di isolamento continuato in sezioni ordinarie o inserimento in AS3.
— Nelle sezioni «accanto»
Gli AS1 sono destinati agli ex 41bis e gli AS3 a quanti perseguiti per lo più per 416bis c. p., ovvero la massa inarrestabile… e arrestata quotidianamente, nella quasi totalità meridionale, che affluisce nelle patrie galere per le retate contro la «criminalità organizzata» (mafia, camorra, ‘ndrangheta per andar sul tradizionale, fino alle «nuove» dinastie/clan sinti e alla «mafia nigeriana»).
Questa alquanto semplificata geografia e logistica penitenziaria per capire un po’ cosa sta dietro al turismo carcerario di cui siamo oggetto. Tutti i circuiti assolvono il duplice compito di inasprimento punitivo e separazione dal resto della popolazione incarcerata, con maggiori criteri di sicurezza. Sulla carta l’AS dovrebbe essere «solo» un circuito di separazione dal resto dei prigionieri, mentre il 41bis è un vero e proprio regime punitivo di cui non stiamo ad elencare qui le innumerevoli vessazioni regolamentari. Inoltre qualche anno fa è stata diffusa una circolare del DAP che prevede l’allargamento dell’utilizzo dei GOM (fino allora preposti, oltre a fare i picchiatori di piazza, i nuclei-scorta e le squadrette punitive in carcere, con funzioni di sorveglianza solo nel 41bis) per il controllo dell’AS dei prigionieri classificati «terrorismo internazionale». Questo per contestualizzare cosa è successo nel caso degli ultimi trasferimenti carcerari, con l’interrogativo, che rimane aperto, se si tratti di una strategia repressiva, di una questione burocratica o amministrativa e/o di una delle tante soluzioni tappabuchi carcerarie che non meritano eccessi di dietrologia analitica. Calcolando pure che alle direttive del DAP su circuiti e differenziazione si sovrappongono le richieste eventuali, in fase di custodia cautelare, del P. M. che stabilisce divieti d’incontro tra imputati dello stesso procedimento od in operazioni diverse. Insomma le varie gradazioni e contraddizioni della repressione statale, che sta a noi capire fino a quando osservare, studiare, subire o reagirvi.
— Il carcere: laboratorio repressivo o palestra del crimine?
Nessuna delle due. È fuori di dubbio che il carcere serva a tenere lontani e controllati i reietti, ma non bisogna pensarlo come qualcosa a sé rispetto alla società in cui è inserito. La legislazione che lo riguarda è emanazione dello stesso Stato che governa altrove. Le divisioni, le restrizioni e la premialità si trovano in prigione come fuori. Da una parte circuiti, regimi, muri, guardie, educatori… dall’altra divieti, prevenzione, zone rosse, recinti, sbirri, scuole. Il carcere rimastica a suo uso il cosiddetto progresso della società. Molto spesso si leggono analisi sull’eccezionalità del carcere. Ma, solo per citare due temi caldi, il prelievo del DNA piuttosto che la videoconferenza non nascono qui… Quando esisterà il teletrasporto non dovremmo meravigliarci di esser trasferiti più da un carcere all’altro stipati dentro un blindato!
Il dominio avanza, digerendo i resti di ciò che ne ha permesso lo sviluppo. Non ci si può illudere che rimarrà conservatore in qualche ambito ristretto. La fiducia in piccole oasi di agibilità è fallimentare per questo. Perché, come assetati in mezzo al deserto potremmo anche raggiungerle, ma resteranno un’illusione. Se la tecnologia derealizza, l’agibilità atrofizza, lasciandoci credere che ci si possa arroccare su posizioni difensive e settoriali.
È nella società (tutta) che si sperimenta, ogni giorno. Il carcere è una parte di questa, il più delle volte le si conforma e anche lentamente. Le leggi anti-anarchiche sono arrivate prima dei circuiti AS! I reati ostativi (quelli per i quali è negato l’accesso ai benefici penitenziari) decenni dopo le legislazioni su mafia e terrorismo. Un ulteriore deterrente, ovvio, ma non una novità.
Purtroppo c’è poco di nuovo in uno Stato che affina i suoi strumenti repressivi.
Basta scorrere la cronaca degli anni in cui vennero promulgati i vari «bis» aggiunti agli articoli dei codici, sia penale che penitenziario (4bis, 41bis, 270bis, 416bis…), per capire che la legislazione risponde a delle emergenze concrete.
Oggi in molti preferiscono denunciare un eccesso di zelo da parte dello Stato nel ricorrere all’utilizzo di decreti emergenziali ma, anche se è triste a dirsi, questo significa che lo Stato si sta abituando a rispondere ad «emergenze» con standard sempre più bassi. Proprio perché alla sua linea innovatrice/offensiva si contrappone il più delle volte una conservatrice/difensiva.
Bisognerebbe piuttosto ragionare su questo, tenendo conto del fatto che le leggi nascono in seguito agli attriti reali presenti in seno alla società. Più questa è pacificata, più lo Stato potrà permettersi di colpire anche la più misera forma di dissenso.
Queste riflessioni possono tornare utili per non cadere dal pero ad ogni inasprimento e vederlo come arbitrio. Noi, qui dentro non siamo cavie ma ostaggi. La prigionia è anche questo: punizione e monito. Lo Stato lo sa bene. Nel suo dosare vessazioni sta al contempo studiando le reazioni.
È la solita spirale azione-repressione. O la si «accetta», cercando di forzarla, con tutte le conseguenze che questo implica, oppure si alzano le mani. La scelta sta ad ognuno. Scelta coraggiosa in apparenza, ma semplice per chi ha già scelto tra vita e sopravvivenza. Dall’una come dall’altra parte del muro.
— Sullo sciopero della fame
Una piccola reazione, che ha portato anche a gravi conseguenze fisiche nel caso dello sciopero della fame di Alfredo (conseguenze dovute allo sciopero ma aggravate dalla decisione del DAP di ostacolare il ricovero ospedaliero) è stata la mobilitazione, dentro e fuori, su L’Aquila che ha permesso di convogliare l’attenzione oltreché sull’AS2 femminile, sul 41bis femminile in cui è da 14 anni rinchiusa Nadia – prigioniera comunista da anni da sola a reagire a questo regime – assieme ad altre donne che si sono unite per la prima volta alle battiture.
E porsi il problema del 41bis non dovrebbe essere unicamente un esercizio di solidarietà verso chi lo subisce ma, se possibile, anche la maturità di un movimento che ragiona in prospettiva: non una mera difesa delle poche libertà ancora concesse, ma una faccenda che tocca tutti coloro che vogliono continuare a ragionare in un’ottica senza compromessi perché l’annientamento dei prigionieri non è questione costituzionale ma rivoluzionaria.
Un bilancio sullo sciopero della fame di giugno è prematuro sull’obiettivo specifico, possibile sulla capacità di mobilitazione e comunicazione che si sono verificate. In questo senso è stato positivo, c’è stata un’indubbia agilità ed inventiva nel ritagliarsi spazi di comunicazione, azioni in Italia ed all’estero, diffusione da carcere a carcere, una solidarietà palpabile. In un periodo in cui sempre più anarchici vengono catturati e sparpagliati qua e là, è stato anche un segnale chiaro della volontà di non farsi scivolare addosso le condizioni imposte senza reagire e di non abbandonare i compagni a se stessi.
Un paio di parentesi sarebbero da aprire sui danni da «intersezionalità» delle lotte, per cui si corre il rischio di sentire di solidarietà, improbabili, da parte di chi in passato e nel presente ha snocciolato accuse e giudizi gravi con faciloneria, arroganza e travisamento della realtà, chiudendo gli occhi di fronte alle posizioni espresse sia da alcuni degli scioperanti che da ambienti solidali negli anni.
Dalle malriposte ansie da prestazione di sorellanza di alcuni collettivi femministi che si sono distinti per essersi prodigati nel lanciar anatemi, gravissimi ed immotivati, coinvolgendo compagne e compagni con cui si hanno rapporti di stima e rispetto a qualche politico alternativo presenzialista delle lotte altrui come gli «autonomi» sabaudi. Sono fenomeni marginali rispetto alla varietà e bellezza della solidarietà che si è verificata ma quest’«intersezionalità» dovrebbe farci riflettere…
— Sulla contro-informazione… ed il voyeurismo informatico
Un’altra piccola parentesi, non per amor di polemica, ma per prender coscienza del fatto che spesso si finisce per confondere il piano della controinformazione, con la diffusione di qualsiasi alito che dal carcere proviene.
Senza nulla togliere alle compagne ed ai compagni che da anni, con impegno e continuità si prodigano in opera di contro-informazione, diffusione e traduzione di testi, notizie, comunicati e aggiornamenti. Qualche riflessione va fatta su alcuni eccessi nella foga di far aggiornamenti su qualsiasi minuzia, probabilmente una foga figlia della facilità tecnologica nell’effettuarli.
Venir coinvolti in una vicenda repressiva, finire in carcere e magari cercare di opporvisi da dentro, finiscono per trasformarci da «soggetto» anarchico ad «oggetto» delle attenzioni solidali.
Sensazione bella quanto si vuole ma che rischia di diventare imbarazzante se si leggono, a distanza, brandelli di conversazioni estrapolate dal contesto, note a volte futili ed errate, buttate in rete nell’ansia di dare il polso sulla situazione carceraria.
È un fenomeno limitato anche questo ma, forse, è il caso di interrogarsi sui motivi di quest’approccio emotivo che sembra necessiti di una tangibilità fin negli aspetti più spiccioli della vessazione repressiva e tende a creare empatie pietistiche più che solidarietà attiva.
— Per non concludere…
Senza far appello a sentimentalismi, vogliamo sottolineare che gli anarchici non dimenticano i compagni in prigione. Questo lo avvertiamo ogni giorno. In luogo di un’umanitaria sensibilità sul tema carcerario, è proprio questo il segno della capacità di andare avanti nonostante le avversità e senza smarrimenti. Perché il carcere non è l’ennesima voce da aggiungere a quelle che compongono una lotta enciclopedica da sfogliare per argomenti. È una possibilità a cui si deve essere preparati. Se si abbandona la retorica indignata sul carcere si riporta finalmente il concetto di prigioniero all’interno dello scontro tra lo Stato e i suoi nemici. Capita invece sempre più spesso di leggere comunicati, scritti di movimento e volantini in cui i compagni in galera vengono definiti con l’istituzionale appellativo di «detenuti». Non è un semplice problema di forma, ma della sostanza di cui stiamo parlando in questo testo. Perché il prigioniero anarchico è l’amaro frutto di uno scontro. Eppur continua a far parte della comunità di compagni. La miniera di stimoli che questa comunità rappresenta fa sì che ogni contatto tra prigionieri e compagni liberi non sia solo la riconferma di un rapporto affettivo. È confronto, scambio.
Non si ha la sensazione di sprecar tempo in galera se la distanza fisica è equilibrata dal confronto. Confronto limitato, come si diceva parecchie righe fa, perché si è pur sempre in galera, ma riconoscersi nei propri compagni serve proprio a colmare questo vuoto.
Per questo la prigionia non deve smuovere indignazione. La lotta anarchica merita un passo ulteriore in senso rivoluzionario, non scandalistico. La prigionia continuerà ad esistere fino a che ci sarà uno Stato da abbattere e che farà di tutto per non cadere. Contribuire a questo processo antiautoritario è la soddisfazione più grande per ogni sincero anarchico.
Anna e Marco
Settembre 2019