Riflessioni da Zone Temporaneamente Assenti

Riflessioni da Zone Temporaneamente Assenti

«Parlami di fuoco e fiamme, ho solo una richiesta, tu parlami di fuoco e fiamme e non di fare festa».

Viviamo tempi strani. Le nubi che un tempo si intravedevano minacciose in lontananza, ora sono sopra di noi. Le acque sono in tempesta, il legno scricchiola, la prua si infila continuamente nella marea. Molti hanno abbandonato la nave, gettandosi rassegnati nell’oceano che si fa sempre più scuro; in molti invece affrontiamo le onde increspate, mettiamo al sicuro sottocoperta tutto ciò di cui ci si è appropriati in anni di lotta e zuppi fradici afferriamo le funi ed affrontiamo esaltati questa nuova sfida.

Viviamo tempi strani ed è proprio in questo momento che dobbiamo riappropriarci e rivendicare lo spazio-tempo anarchico, l’elogio dello scontro e della non-utopia. Uno spazio-tempo che sfugge alle dinamiche di controllo e ai fondamenti relazionali ed economici della società capitalistica tutta, ridefinendo le nostre pratiche d’azione, portando la conflittualità nelle strade e nella vita di tutti, sostenendo la sub-cultura, putrida di fango, ferraglia, comunicazione diretta e libertà in atto.

Sputando in faccia ai politicanti di turno, alla sbirraglia e a coloro che hanno scelto di essere gli sfruttatori o gli indifferenti, rendiamo evidente che una realtà altra non è un’utopia, ma che esiste, perché noi stessi siamo la sua rappresentazione e la sua espressione. La mettiamo in pratica ogni giorno, in ogni gesto, in ogni relazione e in ogni barricata, senza mai tirarci indietro.

La TAZ è la nostra barricata, non ha radici stabili, muta sempre, cambia forma. A volte è composta da mura di cemento, tubi, viti, assi portanti mal ridotti, altre volte di argilla, grani di sabbia o mari salati. Lo spazio in cui si trasforma da potenza in atto, può cambiare le sue fattezze e il tempo è sempre indefinibile, quello che non cambia è la conflittualità, insita nella sua essenza.

Il Riappropriarsi di fabbriche, emblemi dello sfruttamento e scenografia del capitalismo, e rendere pratiche le teorie orizzontali di socialità, creatività, editoria, musica e produzioni dal basso di ogni tipo, ripudiando le dinamiche di competizione e di profitto, dimostra di per sé che tutto è realizzabile. Temporaneamente e non.

La TAZ è un atto politico.

C’è chi dice il contrario. C’è chi la riduce ad uno svago, ad un momento liberatorio di perdita di sé, una sana dose di cassa dritta che nel suo vortice di suoni e vibrazioni dissocia il nostro io cosciente, carico dei drammi e degli sbattimenti quotidiani, dall’ io edonista che invece prende il sopravvento e che rende le percezioni pure, rompendo il filtro paranoico-giudicante della mente. Chi percepisce solo questo aspetto della TAZ, svuotandola dal conflitto, la riduce a mero intrattenimento.

Il contesto storico e sociale intorno a noi è cambiato. Per portare all’attenzione tutte le contraddittorietà, la banalità e la normalizzazione che ormai contaminano il Rave-Universo, provocando voltastomaco e rigurgiti ai molti avventurieri dello stesso, basta banalmente prendere ad esempio l’uso della tecnologia. Anziché dimostrare di essere capaci di sfruttarla quel poco che basta per i nostri cablati obbiettivi, abbiamo fatto sì che sia lei a dominarci, a cambiare la nostra socialità, a imporci una illusoria comodità che non può che ritorcercisi contro. Abbiamo svenduto l’anonimato, la mobilità improvvisata, il depistaggio in nome di una fittizia convenienza.

Se non solo i vagabondi casuali, ma anche e sopratutto i bucanieri che fanno della TAZ il loro vascello, non si rendono conto che in questo modo non si fa altro che provocare crepe alla base, alla carena… bè allora affonderemo nei flutti sul biancheggiar del mare, non come schiavi che si son fatti liberi, ma come liberi che si son fatti schiavi.

Se ci dimentichiamo dello scontro e del conflitto, la TAZ si trasforma in un divertimento commercializzato; in un terreno dato in concessione, registrato, in cui qualcuno porta avanti il suo business, qualcun altro pensa bene di rubare sound, macchine o danneggiare furgoni. Oppure, in un periodo di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, si trasforma in Streaming e le piattaforme di potere diventano il luogo virtuale in cui si sceglie di agire. Insomma, come già è stato detto in un altrui scritto nel quale si parlava di pillole blu e pillole rosse, assistiamo ad un triste e ripugnante suicidio culturale.

Questa non vuole essere una ramanzina spiattellata con arroganza, il fine in questo caso non è la critica distruttiva, è piuttosto la necessità viscerale di interrogarsi e di rivendicare le nostre pratiche, dando linfa vitale al nostro campo d’azione.

Basta con la retorica trita e ritrita secondo la quale il nostro mondo sotterraneo non esiste più.

L’apparato repressivo ha più mezzi di controllo, questo sì, ma a rovinare le dinamiche e le relazioni nelle nostre zone temporaneamente autonome siamo noi.

Si vedono solo bandiere. Il Jolly Roger si muove al vento, stendardo di scafi ormai vuoti.

Dove sono i Pirati?

Bonny and Teach


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