Alla Corte di Assise di Appello di Torino
Memoria difensiva di Anna Beniamino, seconda parte
L’equivoco di fondo di questo processo è che abbia per oggetto qualcosa di nuovo quando per gli stessi fatti e idee, in tanti compagni, per anni siamo stati indagati, processati, assolti e condannati. Non è nuovo il tentativo di trasformare in “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” i legami solidali che stanno alla base dell’agire anarchico.
Non è nuovo il tentativo di cercare un risultato a tutti i costi, attraverso la metodica fabbricazione di “indizi” e suggestioni, e credo sia il mestiere dell’accusa quello di sostenerli anche quando sono demenziali come l’”autoricalco“, offerto in extremis al termine del primo grado di questo processo, o la delirante “fretta” di scrivere un messaggio minatorio alle sei di sera di domenica dopo un’intera giornata passata in casa a lavorare e disegnare.
Sono convinta che da anarchici siamo una magnifica preda: non crediamo nella giustizia dei tribunali, insultiamo PM e poliziotti, spesso rifiutiamo di difenderci di fronte alla plateale messinscena accusatoria. Andrò un po’ contro i miei principi e cercherò di spiegarmi.
Si sta processando l’idea di solidarietà ai prigionieri prima e tra prigionieri poi; quella solidarietà che da anarchici definiamo “solidarietà e complicità” (ed il primo ad usare il binomio non è Gioacchino Somma, con buona pace di accusa e parti civili, ma è un modo di dire in uso da almeno 20 anni in giornali e volantini, basta una veloce ricerca in rete a dimostrarlo) non preoccupandoci del fatto che un sentimento umano possa diventare un capo d’imputazione, un reato.
Di quel che ho scritto e pubblicato negli anni su “Pagine in rivolta”, “KNO3” e “Crocenera” me ne assumo la responsabilità, l’ho fatto fin dall’inizio firmando articoli, specificando l’indirizzo, presentando e discutendo il giornale, come dichiarato nelle memorie difensive depositate in primo grado, per ricollocare nelle giuste proporzioni gli eventi e descrivere quel fenomeno che si autoalimenta per il semplice fatto di mantenere negli anni le stesse amicizie, idee, frequentazioni.
Nei motivi di appello il PM in un lapsus freudiano chiama me ed altri anarchici “imputati storici della FAI” (p. 113) benché a pag. 21 dello stesso documento, nella nebulosa di suggestioni offerte, cerchi di sostenere che l’oggetto di questo processo non siano le stesse persone, gli stessi fatti.
Da anarchica mi trovo invece di fronte ad un’interpretazione fantapolitica di 25 anni di vicende anarchiche, fantapolitica perché quella che emerge dalle carte processuali è una sceneggiatura che non riconosco.
Basterebbe interiorizzare che gli anarchici sono antiautoritari e rifiutano la delega politica per capire quanto sia agghiacciante per me avere una condanna quale componente di “una sorta di comitato direttivo centrale che svolge funzione di direzione strategica rispetto alle singole cellule” (pag. 116 della sentenza e pag. 18 dei motivi di appello) o di avere un “ruolo preminente” (!?), di effettuare “audizioni” (?!?), di “fidelizzare” o “radicalizzare“.
Basterebbe dire che sono anarchica? Che non sono marxista–leninista, non sono islamica radicale e non sono neppure mafiosa?
Ho difficoltà a difendermi dalle illazioni vista la loro vaga natura, le uniche tracce che trovo in maniera circostanziata a giustificare queste illazioni sono a pag. 272 della sentenza e a pp. 120-121 dei motivi di appello e su questo provo a spiegarmi.
La sentenza a pag. 272, in nota 479, fa riferimento alle “audizioni” basandosi su un’intercettazione telefonica tra me e Pier Leone Porcu, non inquisito in questo procedimento, che mi raccomandava di scegliere con cura i redattori. Piero, mi consigliava questo perché aveva fatto parte negli anni passati di una vecchia edizione di CNA e di altre riviste che si occupavano di carcere.
Il PM parla di “audizioni“, “effettuate dalla Beniamino per reclutare persone in grado e meritevoli di partecipare al progetto CNA nuova edizione“, quindi “Omar Nioi“, “egli si è radicalizzato nel 2014 grazie ad Anna Beniamino, in precedenza era un anarchico sociale“. Però non è spiegato da nessuna parte come e dove queste audizioni radicalizzanti sarebbero state effettuate, come si esplicherebbero, visto che pure dalle intercettazioni e lettere scandagliate si capisce l’esatto contrario (l’unica volta che chiedo dal carcere di aspettare per far uscire “Crocenera” perché sto preparando articoli, la mia richiesta è ignorata e sulla querelle assurda sul benefit “Asilo” scrivo direttamente a Rizzo spiegandogli le mie ragioni e tra l’altro ci sono varie lettere agli atti da cui risulta). Cioè si capisce, almeno questo spero, l’assoluta autonomia di giudizio; si deduce che ogni singolo individuo si muove secondo i propri criteri e si assume la responsabilità di quello che dice e fa.
Vorrei che la stessa cosa, assumersi la responsabilità etica delle parole che usano con faciloneria, la facessero gli accusatori e spiegassero cosa intendono per “audizioni” e “radicalizzazione”.
Poi ogni tanto l’accusa si allarga ad una terminologia da processo alla cosiddetta criminalità organizzata: le sabbie mobili della “consapevolezza“, della “collusione“, del “concorso esterno“, delle “collette“, con cui si vorrebbero screditare le basi etiche della solidarietà tra anarchici ed in generale della solidarietà tra individui. Non voglio assolutamente difendermi dall’accusa di solidarietà con e tra prigionieri, è fondamentale per me, è quel che mi fa svegliare serena ogni mattina, ma cercherò di mettere un po’ d’ordine nel castello di errori e illazioni, nel blocco friabile delle accuse.
Quando mi trovo a spiegare singolarmente gli incontri al mare o al lago, le passeggiate in città, la presenza ad un concerto di sera, una frase estrapolata da un articolo, un nesso causale o di conoscenza inesistente ma letto con la sovrastruttura tipica del sospetto poliziesco, da un lato entro nel meccanismo di dovermi difendere dalla normalità, dall’altro mi verrebbe da fare, nonostante tutto dell’ironia, ma visto che su questo castello di carte è costruita l’accusa e la condanna a 17 anni di carcere, per me, senza contare gli altri, cercherò di essere il più precisa possibile.
— Le prove
Nel corso del primo grado ho sottovalutato le “prove”, mi sembrava che la loro inconsistenza, oltre che palese, fosse già dimostrata agli atti. Agli atti, appunto, c’è una consulenza tecnica del RIS di Parma, prodotta all’epoca dei fatti che dichiara inequivocabilmente che le etichette dei plichi esplosivi del 2006 a firma FAI-RAT erano scritti tramite “profili letterali ottenuti con ricalco, ripassati con penna a sfera“, da cui viene dedotto: “da tale risultato deriva come conseguenza analitica primaria, l’impossibilità di procedere a confronti attribuitivi tra il materiale manoscritto di cui sopra ed eventuali scritti sicuramente riconducibili a sospetti“.
Le perizie grafiche commissionate dal PM alle peritissime grafiche dopo aver visionato quelle negative del RIS di Parma, sono richieste di raffronto ad personam, non perizie neutre, la richiesta in questi termini è agli atti. Inoltre sono consulenze di professioniste private a pagamento. Una volta, in aula, appurata la presenza di una scrittura ricavata da ricalco (rilevata dai microscopi del RIS di Parma) le grafologhe hanno ammesso con candore di non averne colto le tracce e che avessero effettuato, su fotocopie, quella attribuzione di “media probabilità” pensando fossero manoscritture spontanee. In corner il PM è ricorso all’acrobazia dell’”autoricalco“, anzi del “doppio autoricalco” visto che addirittura in due avremmo ognuno autoricalcato la propria calligrafia per dissimulare la propria calligrafia? Meriteremmo davvero il plotone d’esecuzione, per demenza multipla.
Quindi la probabilità media è doppia? Poi su cosa si basa questa doppia probabilità o singola probabilità? La grafologia è una scienza statistica? Qual è la credibilità di deduzioni palesemente discordi e vaghe? Una suggestione.
Altra cosa che non riesco ancora a spiegarmi è come sia possibile indicare come “formidabile indizio“, giustificatorio di una condanna, l’interpretazione della prog. 1584.
Un’ingenuità mia di sicuro pensare che un’intercettazione del 2007 (tra l’altro vagliata dagli stessi poliziotti, per lo stesso reato, in un procedimento con gli stessi imputati) già considerata quel che era, nulla, nel 2009, potesse magicamente diventare nel 2020 la pietra angolare di un castello di facilonerie interpretative ed insensatezze.
È stata ammessa, senza spiegarla la discrepanza tra quanto intercettato: “manca una lettera“, “manca una e” e un testo minatorio in cui è rilevata non una mancanza, un inserimento in uno spazio vuoto, ma una sovrapposizione di due lettere che in ogni caso non giustificherebbe il senso della frase.
Due cose ancora sull’intercettazione 1584: quale unica obiezione alle spiegazioni fornite sull’intero audio della giornata, a voce e per iscritto nella prima parte di memoria difensiva depositata il 9 settembre 2020, si è detto, non ricordo da quale dei due PM, che in sostanza non avrei citato quale disegno per tattoo stessi facendo. Non è vero, ho spiegato che stavo effettuando vari disegni per la settimana, non li posso mostrare più certo perché le bozze dei disegni le restituivo al cliente, come già spiegato, soprattutto se si trattava di piccole cose personalizzate. Cioè ho ancora in studio, in originale o copia solo i disegni più elaborati o negli stili che mi interessava sviluppare, ovvero, per intenderci, mantengo le tavole originali di una carpa giapponese con sfondo di onde, di un avambraccio polinesiano od un dotwork geometrico, non di due iniziali intrecciate o di una farfallina o di una frase di Vasco Rossi. Ho ancora in studio qualche catalogo di esempio di lettering ma sono tavole di riferimento dei vari stili calligrafici non il catalogo preciso di tutte le scritte fatte negli ultimi 15 anni. Soprattutto all’inizio i lavoretti piccoli erano la regola in studio, negli ultimi anni le richieste sono diventate più elaborate e mi capitava di fotografare e pubblicare i lavori sul sito del Tattoo Studio o su Facebook, non nel 2007.
Per questo, a me ed a qualsiasi tatuatore è impossibile rispondere con precisione, come sarebbe impossibile ad un negoziante dire quale vestito stesse vendendo nel 2007, o ad un barista quale caffè stesse servendo.
Scritte, iniziali, nomi di figli, mogli e fidanzati, frasi di canzoni, caratteri gotici o corsivi ornati: quella E poteva mancare da un cartiglio, da una raccolta di iniziali in gotico, dalla frase di una canzone o da una citazione latina.
Se me lo avessero chiesto nel 2007 sarei riuscita a risalire con tutta probabilità al cliente, ora come ora ho difficoltà a ricordarmi pure i lavori che avevo in cantiere nel settembre 2016 quando mi hanno arrestata. Cioè ricordo che avevo in programma di concludere un braccio, una manica biomeccanica ad un cliente abituale ma non ricordo la miriade di stelline, ancorette, lettere o diamanti che costituiscono il pane quotidiano per un tatuatore.
— Sui rapporti con amici e compagni, attraverso la mia memoria e ocp di polizia
Le discussioni diventano “audizioni”, le passeggiate “sopralluoghi”, i rapporti personali “fideizzazioni”, i concerti punk nei posti occupati “incontri riservati” e non mancano i meri sospetti allusivi a incontri mai avvenuti non perché lo diciamo noi imputati, ma perché lo certificano i poliziotti stessi che fossimo da tutt’altra parte. Quindi ci si ritrova nel calderone della narrazione d’appello, a riconfrontarsi con eventi che si erano già dimostrati, o almeno lo si sperava, inesistenti in primo grado.
Sintomatici sono alcuni esempi.
Il 28 marzo 2015, in cui il PM si ostina a sostenere che con Bisesti e Mercogliano stessi partendo per Pescara da Roma per un “incontro riservato” quando sono gli stessi ocp della Digos a certificare che il 28 marzo 2015 avessi un appuntamento in tattoo studio a Torino e che sia arrivata in orario in stazione a Porta Nuova per poi andare in studio a tatuare il cliente che mi aspettava.
Il 14 maggio 2016 dove un altro ocp della Digos certifica che fossi con Bisesti in Liguria, benché sia chiarito dall’ocp (cfr. ocp riportati in proroga alle intercettazioni ambientali Beniamino, con contestuale richiesta telecamere in cantina a firma Lionetti e datata 30 maggio 2016 V. F. 177 – pag 1/214) e dalla sentenza di primo grado, in appello l’accusa continua a metterlo in dubbio e ad alimentare una cultura del sospetto.
Per la precisione a partire dal 2017, grazie alla possibilità di accedere agli atti giudiziari su supporti informatici praticabile nel carcere di Rebibbia ed impossibile in altre carceri ho potuto leggere integralmente o quasi gli atti di questo processo in cui, tra le altre cose, sono documentati i miei spostamenti con cadenza quasi quotidiana nel 2015 e quotidiana nel 2016. Superato il fastidio da “grande fratello” orwelliano, ne ho se non altro ricavato indicazioni su dove fossi, se a Torino, a Roma, a Bordighera, etc., nelle date citate.
Avrei avuto grosse difficoltà a dimostrarlo ma il controllo pervasivo per assurdo mi ha aiutato a ricostruire dov’ero visto che è riportato, oltre che da intercettazioni telefoniche e ambientali, da fotografie ocp e lo sarebbe pure dalle mail che però sono state poco prese in considerazione benché trattassero gli stessi incontri, le stesse frequentazioni, lo stesso giornale, quello demonizzato in questo processo come clandestino e organo della FAI.
— Sugli errori storico-politici
Devo accennare ad altri errori di fondo, frutto di una riduzione delle fonti storiche e politiche funzionale al solito vizio dell’applicazione del cosiddetto metodo di inclusione/esclusione a qualsiasi cosa, al limite del revisionismo storico e riducendo la complessità dei fatti a nozioni e demonizzando oltre che le persone i termini stessi.
L’insurrezionalismo non l’ha inventato Alfredo Maria Bonanno e non è stato scoperto negli anni ’90 grazie al processo Marini / operazione Pontelungo.
Il movimento anarchico è insurrezionale nelle sue radici storiche, basti pensare ai moti insurrezionali del 1874 (Bakunin in Romagna… quel “diavolo a Pontelungo” caricaturizzato nel romanzo di Bacchelli) e 1877 (Malatesta e Cafiero con la Banda del Matese nel beneventano). Bakunin, Malatesta, Cafiero che sono ancora oggi assieme ad altre figure storiche discussi, citati e pubblicati sui giornali anarchici, da “Umanità Nova” alle Edizioni Anarchismo passando per i vari blog e pubblicazioni e rivendicazioni.
Il Nihilismo o Nichilismo non se lo sono inventato le CCF nel 2010 ma è un termine, oltre che una visione filosofica, che affiora nella cultura russa della seconda metà dell’800, se non sbaglio se ne ascrive la nascita ad un personaggio del romanzo Padri e figli di Ivan Sergeevič Turgenev che dà corpo letterario alla negazione bakuniana, quella definita dallo storico Isaiah Berlin “straordinaria dialettica distruttiva”, che riemerge negli scritti degli individualisti Bruno Filippi e Renzo Novatore a inizio ‘900 fino alla critica radicale alla società attuale.
Il Federalismo è concetto familiare a tutto l’anarchismo (si pensi a Pierre Joseph Proudhon e al suo “del principio federativo”) in contrapposizione alla centralizzazione statale e politica e non solo ovviamente all’anarchismo in quanto deriva dal dibattito politico risorgimentale.
L’informalità non è neppure lei una novità, ma il contraltare anarchico ai rapporti formali propri dei partiti politici che tutti gli anarchici rifiutano, rifiutando la delega e la formalizzazione dei ruoli.
I gruppi di affinità sono una delle forme di naturale aggregazione del movimento anarchico, a partire dalle pluricitate esperienze spagnole degli anni ’30 (per un raffronto storico: Lorenzo Micheli, Los olvidados, Edizioni La Fiaccola) fino alla sua riproposizione moderna ad esempio in Murray Bookchin.
Il mutuo appoggio non è un “disciplinare di condotta” del “consorzio FAI“, come indicato dal PM in udienza, ma un concetto sviluppato a partire dal noto testo dell’800 Il mutuo appoggio di Pëtr Alekseevič Kropotkin, in cui il filosofo russo, anarchico, lo analizza come naturale tendenza alla cooperazione nel mondo animale, in contrapposizione alla darwiniana competizione tra specie, cioè quello che si auspicherebbe come un “disciplinare di condotta” dei rapporti solidali nel consorzio umano.
Tal Kropotkin, non un filosofo qualunque ma quello che è considerato ancora oggi (ragiono ora con riduzionismo poliziesco), assieme a Malatesta, tra i punti di riferimento teorici (è appena stato ripubblicato Il mutuo appoggio dalle Edizioni Eleuthera) di quella corrente “sociale” che si rifà al comunismo anarchico.
— Sempre dal punto di vista storico e dell’interpretazione
Sono ben consapevole che i termini hanno un valore diverso a seconda di chi li pronuncia, se storico, teatrante o imputato ma nell’illusione che si possano cogliere in maniera obiettiva, provo a spiegarmi.
Sono imputata e condannata in primo grado per terrorismo, non me ne compiaccio certo ma cerco di non farmi spaventare. Non lo dico ora, ma mi è capitato di scriverlo in un articolo, “Terrori”, su CNA, numero 0, in tempi non sospetti. La tesi era piuttosto semplice, da anarchici non dobbiamo spaventarci se ci accusano di “terrorismo”, l’articolo 270 bis fiocca con una facilità disarmante nelle imputazioni di movimento. L’accusa di essere terroristi è “storica” per gli anarchici, che ci piaccia o no, l’importante è mantenere salda la difesa delle proprie idee e pratiche che sono tutto meno che “indiscriminate” e atte a portare il terrore nella popolazione. Credo che Lello Valitutti l’abbia spiegato meglio di me e con una certa esperienza direi, visto che la sua è la memoria storica del tentativo fallito di attribuire Piazza Fontana agli anarchici.
Sempre per rimanere in ambito storico il riferimento a Mazzini od ad altri rivoluzionari ottocenteschi (poi assurti al ruolo di eroi risorgimentali) come “terroristi” non lo collego solo alla verve comunicativa di Alfredo Cospito nelle scorse udienze ma ad un, non imputabile di reato mi auguro, concetto condiviso da storici e teatranti, ovvero che il termine, in tempi precedenti all’attuale bombardamento mediatico sul terrorismo islamico, aveva contorni politici ed evocativi diversi.
Potrei citare l’utilizzo riportato dallo storico Franco Venturi in Il populismo russo, edizioni Einaudi, quando tratta dei movimenti politici e sociali precedenti alla rivoluzione d’ottobre ovvero le “cellule terroristiche” del Partito Socialista Ebraico (il Bund) in cui le suddette erano una sorta di servizio d’ordine, gruppo d’azione per proteggere la popolazione ebraica dai pogrom zaristi ovvero atta rispondere al terrore zarista.
Visto che i PM citano la trasmissione televisiva “Striscia la Notizia”, per corroborare la loro tesi su attentati dimostrativi e non, mi permetto di citare un uomo di teatro, Ascanio Celestini, che in Pro patria, edizioni Einaudi (p. 119 e seguenti) nella postfazione ad un monologo sulla Repubblica Romana del 1849 e le carceri odierne, ricorda quando Carlo Pisacane, Felice Orsini, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Goffredo Mameli, Errico Malatesta o Carlo Cafiero fossero in vita considerati dei “terroristi”, elencandoli come protagonisti di eventi insurrezionali storici.
Terroristi sono definiti dallo Stato turco quegli avvocati morti durante lo sciopero della fame in carcere, condannati per terrorismo, e per i quali in quest’aula è stato osservato un minuto di silenzio il 16 settembre.
Che tutto l’anarchismo sia antiautoritario e che l’anarchismo sia “distruzione di ogni ordinamento politico fondato sull’autorità” e che “bisogna considerare l’anarchia come metodo”: sono due citazioni tratte da “L’anarchia” (1891) di Errico Malatesta, tal Malatesta fondatore di “Umanità Nova” (1920), ancor oggi edita (tanto che il PM in primo grado voleva ascoltarne come testimone d’accusa il direttore responsabile) e considerata nello schemino dell’ordine di custodia cautelare “rivista di area” per gli anarchici sociali, “autoritari” e “organizzatori” della FAI italiana, quella buona… quella che si autodefinisce “portavoce del movimento anarchico sociale” come avviene negli ultimi numeri del settimanale “Umanità Nova”, anche se per gli inquirenti gli “anarchici sociali” sono solo una frangia dell’insurrezionalismo bonanniano. Faccio esempi come questi per dare l’idea di quanto siano riduttivi e contraddittori gli schemi prodotti a fini processuali che cercano di presentare un albero genealogico delle correnti anarchiche con una linearità degna della classificazione linneiana.
— Sulla divisione in correnti
Non voglio e non posso spiegare come si suddivida il movimento anarchico attuale, oltre a non avere la presunzione di farlo, non credo sia possibile estrapolare correnti con consequenzialità e linearità dirette, campi di interesse e di intervento specifici e specialistici in un movimento che ha la peculiare caratteristica di rifuggire il cristallizzarsi in strutture politiche chiuse, ma avanza per continue discussioni e superamenti, pur mantenendo i grandi temi di fondo.
Neppure sulla genesi del pensiero e movimento anarchico ci sono tesi univoche: c’è chi lo fa nascere come dottrina politica dalla querelle Marx–Bakunin in seno alla Prima Internazionale, ovvero nella disputa tra internazionalisti autoritari e antiautoritari; c’è chi lo considera un contenuto sempre presente nelle forme di organizzazione sociale che l’umanità s’è data: un fiume carsico di rivolta e antiautoritarismo che a volte affiora a volte rimane sottotraccia e ancora c’è chi lo mette in relazione con alcuni filosofi pre e post illuministi (Étienne de la Boétie con il Discorso sulla servitù volontaria, William Godwin, etc.). Allo stesso modo i campi di interesse e d’intervento cambiano e assumono caratteristiche peculiari in base al contesto, sono figli dei tempi. Ad esempio l’anarcosindacalismo ha il suo momento di maggior incidenza nel secolo scorso, in cui le lotte operaie erano centrali, non ora in cui lo sfruttamento lavorativo non è più accentrato nelle fabbriche ed in cui prendono piede altri temi e si intrecciano, dalla pervasività tecnologica alla distruzione dell’ecosistema, che diventano temi comuni e trasversali, non peculiari di una “corrente”, per tornare alle suddette schematiche divisioni e alle relative false attribuzioni d’interessi.
A questa mancanza di basi della suddivisione schematica poliziesca si sommano i continui cambi di rotta nella narrazione accusatoria per adattarsi alla sentenza di primo grado.
La struttura è talmente aleatoria che lo stesso PM ne cambia le caratteristiche dal primo grado all’appello e pure all’interno dello stesso appello: se nello schema presente nelle prime pagine dell’o. c. c. [ordinanza di custodia cautelare] dalla casa madre anarchica si dipartivano due correnti, antiorganizzatori ed organizzatori (tra l’altro dotati questi ultimi – per il PM – di caratteristiche aliene al pensiero libertario stesso, si pensi alla Federazione Anarchica Italiana, definita d’ufficio – sempre dallo schema a pag. 18 dell’o. c. c. – come un’espressione del “modello organizzatorio“, costituito da “organizzazioni formali stabili gerarchiche autoritarie”) e dalla prima di queste gli “antiorganizzatori” derivava l’”anarchismo insurrezionalista bonanniano” ed a sua volta per gemmazione secondaria le quattro famose filiazioni (insurrezionalisti classici, sociali, ecologisti e FAI informale).
Nell’esposizione fatta in appello, all’udienza del 22 luglio 2020, il PM alla lavagna ha prodotto uno schema diverso in cui “l’anarchismo bonanniano” si colloca in posizione “mediana” tra le correnti suddette, ciò evidentemente per correggere il tiro rispetto alla sentenza di primo grado che a sua volta approdava ad una ulteriore ricostruzione delle correnti, se possibile ancor più falsata, indicando una specie di doppio livello occulto in un metodo palese.
— Sulle firme
Il PM il 22 luglio 2020 alla lavagna si è prodotto in altre affermazioni tanto assiomatiche quanto false, tra cui un’esclusività della FAI informale nella pratica dell’utilizzo di una firma, anche ripetuta nel tempo, fatto contraddetto dal semplice sfogliare qualsiasi pubblicazione o blog di controinformazione tra quelli agli atti. L’utilizzo di rivendicazioni scritte, sigle diverse o ripetute, appellativi seri o goliardici è storicamente d’uso comune nelle azioni anarchiche e come tale andrebbe recepito, non alludendo a specificità che esistono solo nella testa degli inquisitori.
Infatti al setaccio inquisitorio sfugge l’inquadramento, non spiegandole in alcun modo, di una serie di sovrapposizioni di sigle quali FAI/ELF o FAI/ALF seppur presenti nei blog setacciati e agli atti.
— Sui miei articoli su CNA e sui criteri di pubblicazione.
A forza di rigirarsi tra le mani scritti gli inquisitori cercano a tutti i costi di dargli dei significati reconditi, per ulteriori suggestioni.
In appello, nelle ultime udienze è stato pure fatto riferimento ad un “cambio di registro” in base alla condanna con rito abbreviato di Lo Turco, che è invece di un anno successiva rispetto agli articoli che dimostrerebbero tale “cambio di registro” (2017 e non 2016)! Sarebbero indicativi in questo senso due miei articoli pubblicati su CNA, n. 3, e risalenti all’autunno 2016, poco dopo il mio arresto e quindi scandagliati dal primo giorno di invio, visto che la mia posta era sotto censura, dal momento dell’arresto del settembre 2016 fino al novembre 2017.
L’articolo “Banalità di base, gli incontri servono per incontrarsi”, firmato Anna, Latina, novembre 2016, riguardava gli incontri di movimento e non è dissimile da quanto ho sempre scritto e sostenuto (si vedano ad esempio gli incontri “A testa alta”) ovvero la banalità di base che gli incontri servono per incontrarsi e discutere con i compagni.
L’articolo “Scripta Manent” è un breve resoconto, dopo aver letto l’ordine di custodia cautelare di questo procedimento e non è dissimile da analisi precedenti. Cioè non comunica altro che la consueta valutazione sulle operazioni repressive che vanno a colpire la solidarietà data agli anarchici in carcere, la stampa e le pubblicazioni che se ne occupano. Il ciclico ripresentarsi di queste, con le stesse accuse e capi d’imputazione, non sono solo io a vederlo visto che il PM in appello mi inserisce tra gli “imputati storici della FAI”, ammettendo che è da 20 anni che mi indagano. Perché? Perché ho pubblicato sul blog di “Crocenera” e su precedenti giornali rivendicazioni o contributi, scritti dal carcere, senza portarne copia in questura. Questo perché non ho mai partecipato a riviste che avessero un direttore responsabile o ad una radio che corresse il rischio di chiusura delle frequenze e visto che ritengo importante pubblicare, far circolare quella parte di cronaca di movimento che difficilmente troverebbe spazio altrove. Questo è il mio sentire e non mi permetterei mai di fare diversamente, di censurare o di non confrontarmi con quanto accade.
È lo stesso sentire che mi ha mosso ventidue anni fa a sottoscrivere un testo collettivo di più imputati, “Prospettive operative comuni contro l’atto repressivo ai danni di decine di anarchici/che” che non è altro che la pubblicazione di un dibattito riguardo la gestione processuale del cosiddetto processo Marini. Così come continuo a fare oggi, in quel processo che mi vedeva indagata in posizione sicuramente marginale (se ben ricordo l’elemento scatenante il 270 bis allora era per me l’aver partecipato ad un presidio al processo per rapina di alcuni anarchici a Trento nel 1994) sostenevo che non bisogna creare discriminanti tra i compagni anche se allora ero ascrivibile forse tra i buoni, ora tra i cattivi, ma poco cambia, sono giochi repressivi.
Oggi come allora, che fosse per i rapinatori del 1994, per gli inquisiti da Marini nel 1996, per Alfredo e Nicola nel 2012 o per quel che sarà, continuo a sostenere che “solidarietà e complicità” siano orizzonti da difendere sempre, che non vadano censurate ed occultate le posizioni, anche se scomode, della galassia anarchica che è movimento rivoluzionario, non riformista, il cui codice etico non è sovrapponibile al Codice penale.
Sempre a proposito di solidarietà ai prigionieri, è falso che abbia allontanato alcuni anarchici dalla presenza solidale al processo a Nicola Gai e Alfredo Cospito il 30 ottobre 2013 a Genova. So benissimo che è l’ennesima suggestione coltivata per creare ruoli ed aree ma è nei fatti falsa e insensata rispetto alla stessa ricostruzione poliziesca. Non so quanto sia attendibile la trascrizione dell’intercettazione riportata a pag. 131 dei motivi d’appello del PM non essendo io a parlare, ma so per certo di non aver allontanato o litigato con nessuno dei compagni presenti in occasione dell’udienza per il processo Adinolfi, sia nel presidio fuori all’aula del tribunale che nella successiva assemblea in un’aula dell’università di via Balbi. So che le mie affermazioni hanno un peso relativo, ma lo dimostrano pure le decine di foto e ocp (riportate su F. 179, atti depositati in primo grado) della Digos di svariate regioni d’Italia, che documentano la presenza di un folto capannello di compagni (150 circa, secondo i quotidiani locali) assiepati fuori, visto che si poteva entrare in aula in numero contingentato (attorno alla 20 persone se ricordo bene), senza che nessuno abbia avuto litigi, diverbi o quant’altro tra i presenti. Oltretutto mi sembra assodato che mi sia impegnata in una serie di incontri, quelli che in Scripta Manent sono stati definiti “ciclo a testa alta” in occupazioni e circoli anarchici in tutt’Italia, quindi sarebbe stato ridicolo e insensato, oltre che contrario ai miei principi, allontanare compagni da una presenza, da me, tra gli altri, indetta.
Alla fine di tutto questo vorrei fosse palese che mi rendo conto di aver messo su carta delle banalità, dei concetti di base agli occhi del movimento e di chiunque guardi la realtà per quella che è.
Poi se si vuol mantenere la convinzione di una sceneggiatura dove io abbia corretto “privilegio” in “previlegio”, abbia camuffato la mia scrittura ricalcando la mia stessa calligrafia, abbia circuito giovani e vecchi compagni con una diabolica organizzazione fantasma in un gioco di scatole cinesi… si può pure credere che gli anarchici siano stragisti, a discapito di ogni decenza, ma io mantengo la certezza che si sia voluto colpire con ogni mezzo necessario la solidarietà data ai prigionieri anarchici. Null’altro.
21 ottobre 2020
A questo link il file pdf del testo: Memoria difensiva di Anna in vista della sentenza per il processo Scripta Manent (seconda parte).