Un articolo tratto dal numero 3 del giornale anarchico “Vetriolo”, pubblicato a febbraio 2019. A questo link è possibile scaricare il testo in pdf.
Nazionalismoduepuntozero. Dodici ipotesi su robotica, crisi della globalizzazione e «ritorno» dello Stato-nazione
I
La nostra Prima ipotesi è che le nuove tecnologie sono all’origine della crisi della globalizzazione in corso. Perché la Nike dovrebbe continuare a sfruttare un bambino in Vietnam per un dollaro al giorno, quando può ormai «stampare» le scarpe direttamente negli USA, risparmiando sul viaggio della merce e sui dazi messi dall’amministrazione Trump?
L’immagine del bambino che lavora per un dollaro al giorno per la Nike era l’emblema – ricordate? – del movimento no global, citata da Naomi Klein e dagli altri “guru”. Ebbene oggi questa è roba del passato, ha a che fare col lontano periodo a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Sono passati venti anni da Seattle, svegliamoci!
La globalizzazione non è come il Dio di Nietzsche: è morta, ma non l’abbiamo uccisa noi. La sconfitta del lungo ciclo neoliberista degli infiniti anni ’80, non è stata opera della sinistra antagonista o dell’anarchismo insurrezionalista. E’ stata opera delle nuove tecnologie per la produzione di «manufatti»; termine d’altronde anch’esso desueto, dato che le merci vengono prodotte sempre più dalle macchine.
Questo non significa, naturalmente, la fine dello sfruttamento umano. Questo significa, semplicemente, la fine del «privilegio» degli occidentali. Ne vediamo alcuni accenni, alla «periferia dell’Occidente»: l’impoverimento che hanno subito i greci, i portoghesi, gli italiani, ecc. La produzione, con l’arrivo della robotica e la fine della globalizzazione, «torna a casa»; ma pretende di essere accolta con la dovuta ospitalità. I posti di lavoro sono pochi, per colpa dei robot (ma preferiscono farvi credere che sia colpa degli immigrati), e chi si vuole contendere questo piccolo margine di umano lavoro, deve accettare condizioni sempre più disperate.
II
La Brexit, Trump, Salvini, Orban, sono l’epifenomeno della crisi della globalizzazione. Questo processo ha bisogno di essere governato. I governi fanno quello che possono, dai dazi ad una legislazione sul lavoro di tipo ultra-padronale.
Non è un caso se se ne sono accorti per primi gli inglesi, che gli sono «inventori» del capitalismo d’altronde. Il capitalismo inglese ha capito che il carrozzone europeo stava diventando una palla al piede. Ha capito che con l’impoverimento degli europei sarebbe stato sempre meno economico avere una legislazione che tutela le esportazioni, preferendo ad essa «l’usato sicuro» dell’economia nazionale, da proteggere con la tempesta che avanza. Il problema degli emigranti in terra britannica è un finto problema. La verità è che tanto più un paese è chiuso e razzista, tanto più gli stranieri per sopravvivere saranno costretti ad accettare lavori umili e malpagati, facendo concorrenza al ribasso con gli autoctoni e quindi favorendo l’iper-sfruttamento del residuo lavoro umano che, come abbiamo visto nella prima ipotesi, è il corollario diretto del ritorno a casa della produzione causato dalla robotica. Subito dopo, sono arrivati gli statunitensi. Curioso che contro Trump si fossero schierati tutti gli ex presidenti ancora in vita; e contro l’indicazione di voto di tutti loro, ha vinto invece l’ipotesi nazionalistica, dei dazi, del muro contro il Messico. Segno che questa svolta dei tempi è così profonda da travolgere persino il sistema storicamente chiuso della cosiddetta democrazia nordamericana, dove nessun candidato fuori dal «sistema» aveva mai vinto prima di oggi.
III
Il governo giallo-verde è espressione del ritorno allo Stato-Nazione e della rivoluzione tecnologica in Italia. L’Italia, in Europa, è stata all’avanguardia per quanto concerne questo ritorno di fiamma nazionalistico. Contro un certo luogocomunismo che dal secondo dopoguerra descrive l’Italia serva della NATO, colonia degli USA e tutte le altre banalità della tradizione stalinista, dobbiamo ricordare che il nostro fottuto Stato ha sempre tentato di sperimentare, per quanto da una posizione subordinata al blocco a cui venne assegnato dagli accordi di Jalta, una politica di guerra e di rapina indipendente. Basti ricordare il grande eroe del capitalismo di Stato all’italiana, Enrico Mattei, che finì persino ammazzato dalle multinazionali del petrolio, pur di guadagnare all’Eni un posto al sole fra i saccheggiatori e i devastatori del pianeta. Oppure si ricordi di quando i governi Andreotti nascondevano e proteggevano i leader della resistenza palestinese. O più di recente, agli ottimi rapporti tra Berlusconi e Putin, o agli ottimi rapporti di tutti i governi con Gheddafi fin quando questi era in vita e governava la Libia, aprendo anche grosse crisi diplomatiche e forse rappresaglie terroristiche da parte degli «alleati» (Sigonella). Il governo di Conte, Salvini e Di Maio, in fondo, rilancia questa ipotesi di ritorno al nazionalismo dopo il fallimento del super-Stato europeo. E lo fa con i canali classici del Bel Paese, con gli interventi militari a tutela dell’Eni, con il rapporto con la Russia e la polemica contro le sanzioni, con il finanziamento ai signori della guerra che imperversano in Libia dopo la morte di Gheddafi.
Più innovativo il livello sociale della narrazione giallo-verde. Come il governo italiano tenta di governare l’arrivo delle nuove tecnologie e le crisi sociali che esse produrranno? Sul piano sociale, il reddito di cittadinanza è la risposta immediata ai tanti che a causa della robotica perderanno il lavoro. Ovviamente non è la fine del lavoro. Magari. E’ la ristrutturazione del lavoro entro i canoni imposti dalla robotizzazione. Significa che un giovane sfruttato, per prendere 780 euro al mese, dovrà seguire ogni mattina il corso di formazione allo sfruttamento, dovrà tenere acceso giorno e notte lo smartphone e, quando arriva il messaggino, precipitarsi a lavorare. Insomma il reddito di cittadinanza non è solo un ammortizzatore sociale per i disastri occupazionali che produrrà la robotica, ma anche e soprattutto un organizzatore del lavoro umano sopravvissuto all’avvento delle macchine, e che dovrà essere immediatamente disponibile per non interrompere il ciclo produttivo.
Indicativa la risposta che il Ministro dello Sfruttamento Moderno Di Maio ha rilasciato in una intervista ai primi di settembre. A chi gli chiedeva: «come arginare chi lavora in nero e al tempo stesso potrebbe riuscire a percepire il reddito»? «Non daremo soldi per stare sul divano alle persone», ha replicato Di Maio. «Chi lo riceverà si prende l’impegno di fare lavori di pubblica utilità e di formarsi per lavori che serviranno allo Stato. Nel caso qualcuno lo percepisse senza averne titolo rischia fino a 6 anni di carcere» (Il fatto quotidiano, 03/09/2018). Per vivere si continua a fare lo schiavo! Mentre fai lo schiavo per meno di 800 euro, in più hai il dovere di formarti non certo per fare quello che ti piace nella vita (la filosofia, l’arte, il cinema, la cucina, il sesso… macché), ma per fare i lavori che servono al capitale robotizzato!
E’ davvero la fine del neo-liberismo! Hanno ragione i rosso-bruni. Ma nel senso che ormai è superata ogni parvenza di dicotomia tra lo Stato e i padroni. Naturalmente non è mai esistita, e noi anarchici lo sappiamo bene! Eppure lo slogan neo-liberista era «meno Stato, più mercato», mentre la sinistra statalista rispondeva «più Stato, meno mercato». Il futuro che ci prospetta il governo è il totale assorbimento dello Stato-Capitale: lo Stato ti eroga lo stipendio (di 780 euro e sotto forma di tessera annonaria!) e tu fai lo schiavo per i padroni. E nel mentre, «ti formi» per adeguarti meglio ai «nuovi lavori» creati dalle «nuove tecnologie».
Sempre sul piano sociale, estremamente crudele è la funzione che svolge la cosiddetta «emergenza immigrazione». Da tutti i punti di vista. Sia perché arriva nel momento perfetto per distrarre milioni di sfruttati, per dire loro che sono i migranti (e non le macchine, come realmente sta accadendo) che tolgono il lavoro agli italiani. Sia perché, come abbiamo già osservato, tanto più crudele è la repressione verso gli immigrati, tanto maggiore sarà il loro sfruttamento. Quindi tanto più forte sarà la concorrenza verso il basso, verso condizioni di lavoro sempre peggiori.
La qual cosa è tanto più importante nell’epoca dei robot: il residuo lavoro umano rimane l’unico pezzettino di produzione che il padrone può ancora comprimere per risparmiare quel poco che gli permette di essere competitivo. Il sangue, il sudore, la miseria sono l’unica cosa su cui continuare a fare profitto nell’era delle macchine.
IV
Lo scontro tra borghesia nazionalista e borghesia globalista. Questo processo non avviene in maniera naturale e indolore. Esso è il frutto di un parto estremamente travagliato. Le nuove tecnologie hanno questa contraddizione. Alcune di esse favoriscono un rientro della produzione «a casa». Il mito del «chilometro zero» osannato dal riformismo ambientalista e dalla sue risposte alla crisi ecologica di tipo ombellicale, esistenziale, al livello del consumo privato eticamente orientato… ecco questo mito eminentemente green… lo realizzeranno le macchine!
Eppure, per un altro verso, le nuove tecnologie continuano anche il processo di mondializzazione. Innanzi tutto dal punto di vista delle comunicazioni: internet. Ma anche dal punto di vista delle materie prime per produrre le merci. Un giorno avremo le stampanti 3D nella FIAT che producono direttamente le macchine (consigliamo di vedere su YouTube il video della stampante 3D che “stampa” una casa!). Ma servirà sempre l’acciaio, l’energia per la produzione, la plastica. Quindi, proprio per poter portare a casa la produzione, paradossalmente ci dovrà anche essere una fitta rete di approvvigionamento mondializzata. In particolare proprio l’informatica impone l’uso di materiali (come i cristalli liquidi) che si trovano quasi solo in Africa centrale. Continente nel quale la Cina sta investendo con lungimiranza capitalistica.
Insomma la tendenza di internet e della logistica sarà sempre di più forte internazionalizzazione, mentre quella dei manufatti (ormai fatti dai robot) sarà di nuovo nazionalismo.
Questa linea di divisione intrinseca alla nuova rivoluzione industriale in arrivo, è già espressa politicamente dai due partiti della borghesia: quello europeista (il PD, la Confindustria) e quello nazionalista 2.0 (la coalizione oggi al governo in Italia). Sarebbe un grosso errore pensare che questi ultimi siano dei reazionari, degli arretrati che si ribellano disperatamente all’arrivo della modernità. Per certi aspetti, i neo-nazionalisti sono «più avanti» rispetto alla classe dirigente geriatrica dell’europeismo liberista. Non dobbiamo figurarceli semplicemente come il padroncino brianzolo che ha la «fabbrichetta» da difendere dalle ingerenze dell’Europa, degli ispettori del lavoro, degli ispettori sanitari, ecc. Questo, vecchio porcellone, è l’elettore medio leghista. Ma in questa coalizione c’è anche e soprattutto il giovane brillante che ha inventato una start up per la consegna istantanea di prodotti biologici umbri. Ed è eminentemente all’interno della categoria del nazionalismo 2.0! Innanzi tutto è a chilometro zero. Poi, ha bisogno di chi fa la vendemmia un mese l’anno, o di chi fa la raccolta delle olive un mese l’anno, o del tecnico informatico che lavora quando il software fa le bizze. E come fanno questi proletari a tornare per la prossima vendemmia, senza nel frattempo morire di fame? E di cosa vive il tecnico informatico, fra un intervento e l’altro? Ma del reddito di cittadinanza!
Insomma il nazionalismo 2.0 non è una svolta reazionaria in senso classico, ma è uno dei due modi di interpretare la rivoluzione tecnologica in corso.
V
La Quinta ipotesi, che ci duole fare, è che per molto tempo l’anarchismo e in generale ogni prospettiva rivoluzionaria sarà fuori dal discorso pubblico. Non c’è alcun attendismo in questa osservazione. L’anarchismo può anzi sopravvivere questa fase storica solo con la propaganda col fatto. Lo vedremo meglio in seguito.
La nostra, qui, è solo una valutazione obbiettiva. Un migrante rinchiuso in un CIE, un prigioniero quando si chiudono i blindati, un operaio che torna a casa, un cameriere al bar, tutti davanti al fottuto televisore ad ogni telegiornale costretti a sorbire la stessa notizia: il provvedimento del governo sul lavoro, l’opposizione (sic) di PD e Confindustria da un punto di vista liberista. Non è più il pensiero unico. La critica del pensiero unico appartiene anch’essa alla fase precedente, ai no global, all’antagonismo degli anni di fine/inizio secolo. Questo è il pensiero binario, dove però nessuno dei due binari è il nostro!
Paradossalmente si stava meglio ai tempi del pensiero unico. Poiché il pensiero, insegna la filosofia, non è mai unico. Nel momento che si postula un pensiero unico, subito emergono gli insoddisfatti, i nemici, gli antagonisti (di cui noi facevamo parte). Ora è peggio; ci sono due tesi e nessuna delle due è la nostra: noi non stiamo né coi razzisti né coi liberisti. E per molto tempo nessuno capirà allora che cazzo vogliamo!
Questa dicotomia nella quale l’anarchismo e in generale ogni prospettiva rivoluzionaria è assente, performerà i cervelli della nuova generazione. Non basta fare finta di niente. Non basta nemmeno rifugiarci nelle sottoculture: sperare di «arruolare» giovani anarchici che ancora nel 2018 fanno i punk, è come affidare la sopravvivenza della specie a dei fossili viventi.
Nondimeno l’anarchia è più attuale che mai. Questo il grande paradosso del nostro tempo. Essa è la sola salvezza per evitare la catastrofe ecologica, per evitare che lo scontro tra borghesia nazionalista e finanza internazionalista ci porti tutti alla fame, per evitare che il nazionalismo degeneri ulteriormente verso forme totalitarie e fasciste, per evitare che il nazionalismo precipiti un’altra volta la storia dell’umanità in una guerra di sterminio mondiale.
Vogliamo elaborare un piano per sopravvivere? O vogliamo continuare a dire che l’analisi, la progettualità, le strategie fanno orrore alla nostra irriducibile individualità?
La nostra sarà una traversata nel deserto. La prima cosa da fare è capire dove ci troviamo. E ora ci troviamo nel momento nel quale siamo fuori dalla narrazione pubblica. Essa è interamente dominata dallo scontro fra la «destra» populista, razzista, nazionalista e la «sinistra» europeista, amica delle banche e della finanza.
VI
Nessuno dei due campi di questo scontro è il nostro. Contro ogni ipotesi frontista. Abbiamo detto che in questa traversata nel deserto la prima cosa da capire è dove ci troviamo. La seconda, è capire dove NON dobbiamo andare. Noi non dobbiamo, assolutamente, andare verso un’ipotesi di fronte comune con uno dei due poli dello scontro. Sarà difficile farci capire – sti cazzi – ma noi non siamo né razzisti né liberisti. Non c’è un «meno peggio».
Le tentazioni frontiste saranno molto forti. Dobbiamo resiste alle loro sirene! Un pezzo di sinistra stalinista è già caduta nella trappola: alcuni pezzi di sindacalismo di base da anni flirtano con i 5 stelle; idem per quanto riguarda un pezzo di autonomia che vede nel reddito di cittadinanza il mito della fine del lavoro (abbiamo visto che non è così); idem per quanto concerne numerosi movimenti ambientalisti.
Il richiamo al frontismo patriottico è forte e ben strutturato a livello internazionale. Si pensi al movimento tedesco di Aufstehen! (“In Piedi!”), nato da una costola della Linke, per costituire in Germania una sinistra che non sia no-border e difenda i salari degli operai tedeschi dalla concorrenza dei migranti. E’ la stessa ipotesi che ha portato Melenchon ad ottenere un buon successo elettorale per la sinistra francese, ridisegnando per l’occasione le proprie bandiere da rosse a tricolori. Lo stalinismo non cambia proprio mai…
In Italia, i frontisti patriottici sono decisamente più dispersi. Recentemente ci sta provando Stefano Fassina, con la sua associazione Patria e Costituzione, ma anche ferri vecchi dell’antimperialismo che oggi difendono Salvini, così come le cariatidi dello stalinismo, tipo i Carc, che se la fanno col Movimento 5 Stelle. Quelli messi peggio, dei veri e propri traditori da colpire ovunque li si incontri, sono le frattaglie di quel microcosmo che si auto proclama «sinistra sovranista». Esse sono ormai passate armi e bagagli col nemico: dall’esimio prof. Bagnai, ieri amico dei luogocomunisti oggi parlamentare eletto nelle file della Lega, al mai troppo vituperato Diego Fusaro, il filosofo dagli occhi azzurri, esegeta di Marx e Gramsci, che oggi ha aperto una rubrica sulla cloaca online di Casa Pound, Il Primato Nazionale.
D’altro canto, non possiamo fare fronte comune nemmeno con le opposizioni. Non si può parlare col PD o con la sinistra all’inGrasso. Attenzione perché questi «ci provano», come si suol dire. Una delle loro parole di richiamo sarà la radunata antirazzista, di cui il corteo di Milano durante l’incontro Salvini-Orban è soltanto un assaggio. Pezzi del PD, come il rappresentante della Confindustria nel partito, l’ex ministro Calenda, teorizzano da mesi la necessità di fare un Fronte Repubblicano. Laura Boldrini, vera e propria prèfica siciliana ai funerali dei migranti morti in mare, parla di Listone Unico anti-populista alle prossime elezioni europee.
E non basta ripetere: quello che sta facendo Salvini ieri lo faceva Minniti, la prima legge di segregazione dei migranti è stata la Turco-Napolitano, ecc. Tutto vero, ci mancherebbe. Ma metterla solo da questo punto di vista sarebbe estremamente generoso. Descriverebbe il PD come una Lega un po’ meno brutta; in fondo, pur partendo da una critica, comunque darebbe l’idea di una «graduazione quantitativa» di razzismo e autoritarismo. Questo pezzo di Stato invece sviluppa una ipotesi alternativa (pur essendosi macchiato di molte delle nefandezze che ora imputa agli avversari), ma non meno disgustosa: la dittatura delle banche, i massacri sociali dei governi Monti, la legislazione sul lavoro dei governi Renzi che ha dato ai padroni carta bianca sull’intensificazione mostruosa dei livelli di sfruttamento. Queste leggi della sinistra liberista hanno fatto talmente schifo, che persino il governo neo-nazionalista, riesce a fare di «meglio», anche se si tratta di modifiche poco più che simboliche. E quando il nuovo governo razzista «migliora» le leggi sullo sfruttamento del lavoro salariato, l’opposizione di sinistra critica il governo, difendendo le vecchie leggi liberiste!
Il risultato è uno spaesamento generale.
Attenzione perché anche su questo punto in molti ci stanno già cascando nella trappola frontista. Alcune mobilitazioni spontanee, sentimentali di anti-razzismo hanno finito per restituire dignità a coloro che hanno sviluppato un massacro sociale senza precedenti negli ulti anni. I radicali, che quest’anno erano presenti alle elezioni con la lista il cui nome – «più Europa» – è tutto un programma, arieccoli che ricominciano con le ispezioni nelle carceri, nei lager per migranti. Le sirene frontiste si faranno tanto più forti quanto più la sbirraglia di Salvini colpirà duro.
VII
Non siamo nel fascismo, ma in una svolta autoritaria di «nuovo tipo». Corollario alla critica al frontismo con le opposizioni democratiche è la critica all’antifascismo. Abbiamo scritto, concludendo il numero 2 di Vetriolo: «Non è il ritorno del fascismo, ma di Bava Beccaris. Che non è meglio». Cosa volevamo dire? Che siamo di fronte ad una svolta autoritaria, certamente, ma all’interno del regime liberale. Che il ritorno al nazionalismo, per come si delinea ora, sarà il ritorno allo Stato Nazione tipico degli anni precedenti alla Grande guerra. Ma con strumenti tecnologici fino ad ora inauditi, e che potrebbe generare una grande guerra sta volta di sterminio totale. La situazione non è felice ma strillare «fascismo, fascismo, fascismoooo» non aiuta. Se si sbaglia l’analisi spesso si sbaglia anche la risposta, e quindi si peggiorano le cose.
Gridare al fascismo, paradossalmente, questo sì che potrebbe provocare il fascismo, quello «vero». Perché fare fronte antifascista con il partito dei banchieri, dei burocrati, delle oligarchie internazionali potrebbe dare la spinta decisiva alla mobilitazione reazionaria delle masse, ad oggi presente solo come forma di «tifo», nel razzismo dei bar e dei social network. Se passa il messaggio che noi siamo gli antifascisti nemici del governo (fascista) e se passa, con esso, la menzogna che siamo gli amici dei plutocrati, a quel punto sì che il passo sarà breve affinché parta la caccia nazionale all’anarchico. Perché sono talmente odiati quelli del PD, e a ben ragione, che se si convince la gente che questo governo è fascista, stai a vedere che finisce pure che alla gente il fascismo comincia a piacere.
Le teorizzazioni sul cosiddetto fascio-leghismo, oltre ad essere analiticamente pigre, sono nondimeno inesatte. Il fascismo era un fenomeno reazionario, una Reazione originale rispetto a quelle storiche che erano espressione della rappresaglia delle aristocrazie e delle monarchie dopo le varie rivoluzioni del 1789, del 1830, del 1848, della Comune di Parigi, ecc. La sua originalità era che la reazione si faceva di massa: erano migliaia di borghesi e di scemi di guerra, che venivano armati per tenere a bada la classe operaia italiana dopo il periodo quasi rivoluzionario del Biennio rosso. Oggi non c’è nessuna rivoluzione di fronte alla quale reagire. Purtroppo. La sola mobilitazione reazionaria è contro i migranti. Ma questo non basta per avere il fascismo. I Pogrom nell’Est, le deportazioni di italiani negli USA, ecc., sono sempre avvenute e queste nefandezze dei governi e questi crimini del «popolo bove», da sole, non bastano per avere un cambio di regime, una «rivoluzione fascista».
In fin dei conti, abbiamo visto, il movimento autoritario in atto non è nemmeno, tecnicamente parlando, un movimento reazionario. Non reagisce ad una spinta della modernità. Ne è espressione. E’ il prodotto della robotica. E’ una delle ipotesi con cui affrontare l’arrivo delle macchine: quello del «ritorno» allo Stato-nazione.
Bisogna dunque avere la pazienza di comprendere nei dettagli teorici e nelle implicazioni pratiche in che cosa consiste questa svolta autoritaria di «nuovo tipo».
VIII
Svolta autoritaria e legislazione anti-anarchica. L’errore opposto al fronte unico anti-fascista, è quello della minimizzazione. Una tradizione, sbagliata, che in Italia ha una storia lunga, almeno dai tempi del PCdI di Bordiga. E che taluni compagni anarchici, senza saperne le origini, continuano a riprodurre sotto forma di semplificazione e di luogo comune: «ma sì, è sempre il solito capitalismo» la versione banale. Compagni che non seguono le vicende politiche «perché noi siamo contro la politica» e «i governi sono tutti uguali».
Il «ritorno» allo Stato-Nazione non sarà indolore. Dal punto di vista repressivo, colpirà duramente gli anarchici e i rivoluzionari, arrivando ad impedire loro molto presto pure la libertà di parola.
Non si deve fare l’errore di chiamare «fascista» ogni svolta repressiva. Le leggi anti-anarchiche di Crispi (1894) sono state fatte da un governo liberale, che allargava il suffragio elettorale e tollerava la presenza parlamentare di un Partito Repubblicano che non voleva nemmeno il Re e di un Partito Socialista che a parole voleva addirittura la rivoluzione sociale. E ai membri di questi partiti, proprio il Crispi rispondeva nel dibattito parlamentare di luglio ’94 che la legislazione speciale si sarebbe fermata tassativamente agli anarchici. Lo stesso istituto del Confino è molto antecedente all’avvento del potere di Mussolini.
Per tentare di definire meglio la svolta autoritaria in arrivo, potremmo provare a citare, rovesciandone il significato, il famoso sermone di Bertolt Brecht:
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
Il sermone chiarisce espressamente cosa sia il fascismo. Possiamo utilizzarlo, però, anche per capire cosa sarà la svolta autoritaria in arrivo. Proviamo a spezzare, ad interrompere la poesia. Prima di tutto vennero a prendere gli zingari… poi vennero a prendere gli islamici… poi vengono a prendere gli anarchici. Fine.
L’ipotesi che noi qui avanziamo è che vivremo una svolta autoritaria nella quale la poesia di Brecht si interrompe. Non si arriva al fascismo, cioè alla generalizzazione della repressione contro ogni forma di opposizione, anche democratica, anche liberale. Non incontreremo mai gli esponenti del PD nelle sezioni AS2!
La repressione si limiterà a distruggere solo i rivoluzionari. Ma per i democratici, per i liberali, per la sinistra elettorale (anche estrema, antagonista, stalinista o trotzkista) non ci sarà né confino né 41 bis. Anche perché non danno fastidio a nessuno!
La svolta legislativa contro-rivoluzionaria è iniziata, a ben guardare, molto prima della svolta economica e statale neo-nazionalistica. Ci sono ad esempio tre brigatisti in 41 bis ormai da quindici anni in Italia! Questo non lo ha fatto un governo fascista, ma numerosi governi democratici di diversi colori politici. Il salto di livello repressivo è avvenuto entro i canoni del sistema democratico. Di più. Esso non è stato la premessa per una repressione ulteriore, come avrebbe fatto un regime fascista. Non ha fatto da precedente. Nessun altro comunista o anarchico è finito in 41 bis da allora.
Pensiamo oppure alla repressione contro l’islamismo. Oggi in Italia se un musulmano scrive frasi filo-terroriste su facebook rischia l’arresto e la deportazione. Ma, di nuovo, la svolta non si configura come svolta fascista, bensì come svolta di uno Stato sovrano che decide, democraticamente e nella propria legalità parlamentare, certificata senza opposizione dal Capo dello Stato, dalla magistratura costituzionale, dalla Cassazione, da tutte istituzioni che non sono state sovvertite da destra. E, di nuovo, tale svolta non apre la porta alla generalizzazione: si ferma agli islamisti.
Veniamo alla legislazione anti-anarchica: nel 2007 il nostro compagno Damiano Corrias viene arrestato per una scritta su un muro; il pm Manuela Comodi in aula chiederà per Damiano 6 anni di carcere (il tribunale ne accorderà 1). Di nuovo, la svolta non è generalizzata. Non tutti quelli che scrivono su un muro «cucciolone ti amo» vengono condannati a 6 anni di carcere. Ma solo gli anarchici. E non tutti gli anarchici, ma solo quelli che operano in un gruppo che lo Stato, lucido e liberale, decide di distruggere in una specifica operazione.
Andiamo avanti col movimento anarchico. Il processo Shadow ha visto tre compagni condannati a due anni e mezzo per aver redatto il foglio anarchico KNO3. Il processo Shadow è un precedente, riconosciuto dalla Cassazione. Significa che ci sono stati numerosi giudici, in tre gradi di giudizio, secondo le regole e i tempi del regime democratico garantista, che hanno deciso, dopo anni di riflessione, che fare un giornale anarchico è un crimine contro lo Stato. In questi mesi arriverà la sentenza di primo grado dell’operazione Scripta Manent, fra i cui capi di imputazione c’è la redazione del giornale della Croce Nera Anarchica.
E chiudiamo il cerchio, tornando ai compagni e alla compagna delle BR-PCC in 41 bis da quindici anni. Nei decreti impositivi del 41 bis a Nadia e agli altri due prigionieri politici, si riconosce il fatto che non c’è più un’organizzazione di appartenenza, ma si dice anche che il fenomeno delle organizzazioni proletarie combattenti, è un fenomeno ciclico, con tendenza carsica e possibilità di ripresa nel medio periodo: quindi ineliminabile, ovviamente, in un tipo di società che è fondata sullo sfruttamento e sulla divisione in classi. In altre parole il ministero della giustizia (ogni ministro della giustizia: democratico, leghista, grillino) negli ultimi quindici anni ha riconosciuto che, il solo fatto di essere in una società capitalistica, rende necessario l’uso di un tale deterrente, terroristico, nei confronti di tre rivoluzionari comunisti. Come un tempo si mettevano i cadaveri dei banditi appesi fuori dalle porte della città.
Quello che vogliamo dimostrare, è che stiamo andando verso una svolta repressiva che non avrà caratteri totalitari. Non riguarderà la totalità dell’opposizione al regime. Riguarderà solo i rivoluzionari.
Sapere cosa sta per arrivare è il primo passo per cominciare ad affrontarlo. Ci dobbiamo aspettare la progressiva chiusura di tutti i giornali anarchici che sostengono l’azione diretta. Ci dobbiamo preparare ad organizzare una soggettività teorica, in grado di continuare a scrivere e a parlare, anche in condizioni di illegalità conclamata. E dobbiamo essere consapevoli che, in assenza di una generalizzazione della repressione, in pochi, molto pochi, saranno solidali.
Perché la solidarietà non è carità. Si è solidali con i propri simili: con degli sfruttati come te, con dei perseguitati dalla repressione come te. Ma se la svolta autoritaria che noi ipotizziamo sarà quella della poesia di Brecht interrotta, quella che non diventa totalitaria, allora i perseguitati saranno una minoranza. E a parte qualche uomo o qualche donna dal cuore generoso, ce la dovremo cavare da soli.
La comprensione della svolta autoritaria di «nuovo tipo» deve quindi fornirci gli strumenti idonei per affrontarla. E per farle fare dei passi indietro. Attaccarla e ridicolizzarla. Costringerla a dei veri e propri fiaschi operativi. Significa che i compagni devono cominciare a capire cosa diamine sta arrivando, e prepararsi di conseguenza.
IX
La persecuzione contro gli immigranti è un’operazione terroristica per inasprire lo sfruttamento. Apparentemente, sembrerebbe l’aspetto più fascista del nuovo regime. In realtà conferma perfettamente la nostra ipotesi. Non solo perché essa ha inizio con i governi democratici precedenti. La repressione contro gli immigrati ha le caratteristiche tipiche del terrorismo non totalitario del nuovo capitolo repressivo che si va aprendo.
In Italia ci sono circa 6 milioni di immigrati, 3 milioni dei quali lavorano come operai (76%), come braccianti, come badanti, come prostitute (circa 50 mila!). Senza di loro l’economia del Paese andrabbe a picco. Gli stessi 600 mila clandestini sono tenuti in condizioni di illegalità proprio dallo Stato, che ha bisogno di produrre sacche di schiavismo. Di questi, i rimpatri sono stati circa 6.340 nel 2017: circa uno su 100.
Il nuovo ministro dell’inferno Salvini promette di inasprire la repressione: sequestra le navi con centinaia di disperati a bordo; vuole costruire un lager in ogni regione. Ma lo stesso Salvini ha di recente ammesso che la promessa elettorale di deportare totalitariamente 600 mila clandestini è irrealizzabile.
Quale è dunque il vero obbiettivo di Salvini? Deportarli tutti, sterminarli tutti, come farebbe un vero governo fascista? Noi crediamo di no. Il vero obbiettivo del governo è di ucciderne, affogarne, imprigionarne «solo» poche migliaia, un’infima minoranza statistica, con un messaggio terroristico ben preciso per tutti gli altri: se non vi fate sfruttare, potrete fare anche voi quella fine!
Se non fate i bravi e il padrone vi licenzia, perderete il permesso di soggiorno e finirete nei lager per irregolari!
Non è un caso che nel «decreto sicurezza», dove è prevista l’espulsione per quegli immigrati che dovessero macchiarsi di reati particolarmente odiosi per la pubblica opinione (stupro, rapina, ecc.), viene surrettiziamente e nel silenzio generale prevista l’espulsione anche per reati come la resistenza e finanche l’ingiuria a pubblico ufficiale. Un duro colpo per alcune situazioni di lotta di piazza, come negli scioperi della logistica o nelle manifestazioni di lotta per la casa, dove la gran parte dei protagonisti degli scontri con la polizia sono di origine straniera. Mentre il picchettaggio davanti ai cancelli di un’azienda diventa punibile, per tutti, italiani e stranieri, da 1 a 6 anni di carcere!
Ma per gli stranieri ora viene prevista la perdita della cittadinanza e quindi la deportazione.
Anche per quanto concerne le persecuzioni contro i migranti, osserviamo dunque che la svolta autoritaria non è di tipo fascista-totalitario, ma di tipo terrorista-borghese. Colpirne uno per sfruttarne cento. Questo implica che la nostra lotta non va impostata come resistenza sui diritti, ma come attacco ai padroni e sfida al monopolio della violenza dello Stato.
Tante più falle ci saranno nella macchina della legalità, tante più difficoltà troverà il piano dei padroni di renderci schiavi, qualunque sia il colore della nostra pelle.
X
La fase nichilista. Nonostante la polarizzazione tra blocco nazionalista e blocco finanziario metterà per molto tempo in sordina, nel dibattitop ubblico e nella comprensione dei più, le ragioni della rivoluzione sociale, nondimeno la fame, la miseria, l’inquinamento, l’esaurimento nervoso degli sfruttati continuerà a crescere. In assenza di ogni prospettiva programmatica, che oggi non possiamo e non vogliamo dare, che forma prenderà questa insoddisfazione? Come esploderanno le contraddizioni? Noi crediamo che esse si esprimeranno attraverso una fase, un periodo di nichilismo individuale e sociale.
Noi non siamo dei nichilisti puri. In quanto tali, non dovremmo nemmeno credere nel concetto di fasi storiche, temporali. Noi crediamo infatti che il nichilismo non è la prospettiva universale, ma la tempesta che per un po’ di tempo creerà le maggiori difficoltà per lo Stato e il capitale. Sarà il solo modo, disperatissimo, con cui i più esprimeranno il disagio. E sarà il solo modo col quale gli anarchici per un po’ potranno esprimersi, non avendo nulla da proporre.
Dobbiamo quindi entrare nella tempesta nichilista, ma lo dobbiamo fare con una bussola ed una imbarcazione in grado di reggere botta. Non possiamo avere un programma, ma è necessario elaborare un progetto. E metterlo in pratica.
Non capire che questo sarà il problema dei prossimi anni, sarebbe esiziale per il movimento anarchico.
Nella fase nichilista gli anarchici dovranno dunque sapere: 1) come sopravvivere; 2) dove colpire. Il nuovo luddismo potrebbe essere uno degli elementi principali. Gesti di rabbia contro le macchine, «che ci rubano il lavoro!!!».
Qualcuno nella Tribù dei Musi Lunghi si lagnerà, mugugnerà un poco. Ma come, gli anarchici non devono parlare di lavoro, gli anarchici sono contro il lavoro! Siete dei marxisti camuffati! Ai capi indiani dei Musi Lunghi dovremo ricordare che tante lune fa Marx condannava il luddismo, mentre Bakunin lo esaltava. E poi applichiamo questo principio estremistico a tutti i campi, usiamo la «filosofia del martello»: gli anarchici non dovrebbero parlare di carcere, sono contro il carcere! Giusto? E ancora: gli anarchici non dovrebbero parlare di guerra, sono contro la guerra! E poi: gli anarchici non dovrebbero parlare di sessismo, sono contro il sessismo!
Ecco, l’anarchismo musone vorrebbe che noi non parlassimo affatto (siamo contro il linguaggio!, questa è la versione situazionista). Bisogna stare zitti e con la luce spenta. E il martello… psss… diamocelo in testa!
Noi crediamo invece che un altro mondo è impossibile, è questo che dobbiamo combattere. E poiché in questo mondo il lavoro purtroppo c’è – e la redazione di Vetriolo, vi rassicuriamo, è composta da scansafatiche della peggior specie! – di lavoro gli anarchici devono tornare a parlare. Noi il martello preferiamo tirarlo sulle macchine.
XI
La propaganda col fatto. Osservare che per un lungo periodo l’anarchismo sarà fuori dalla narrazione dominante, non deve farci disperare, né tanto meno deve rinchiuderci nell’attesa di tempi migliori. I tempi migliori non arrivano mai, se non c’è qualcuno che agisce. I movimenti attendisti sono sempre finiti nel dimenticatoio. Per loro i tempi migliori non sono più arrivati e i loro movimenti sono morti con l’estinzione anagrafica dei loro componenti (in fedele attesa).
Attraverso l’azione diretta l’anarchismo può continuare ad essere forza vitale, pulsante, agente. Ora sull’azione diretta si è fatto un gran parlare. Ci si è innanzi tutto interrogati su cosa fosse un’azione diretta: uno striscione, una scritta su un muro è azione diretta? O la sola azione diretta è quella distruttiva? In secondo luogo, ci si è separati sull’oggetto della distruzione: colpire le cose, o soltanto le persone?
Noi vorremmo dare un contributo, spostando un poco la disquisizione. L’azione diretta che oggi necessita è la propaganda col fatto. Azioni che, nell’epoca di un importante riflusso nazionalistico che trova opposizione pubblica solo nelle cariatidi dell’europeismo, sia portatore di un altro discorso, veicolato da un’altra pratica. Attraverso la propaganda col fatto l’anarchismo può fornire delle ipotesi di azione e di analisi, può far passare le proprie parole al di fuori della ristretta cerchia dei suoi militanti, ormai accerchiati. Insomma può essere quella bussola che ci permetterà di attraversare la tempesta durante la fase nichilista. Una bussola che non detiene nessun Comandante, dove la rotta la si decide col dialogo dell’azione rivoluzionaria.
E’ già successo.
Dal 1 al 19 luglio del 1881 a Londra si svolse un importante congresso internazionale anarchico. E’ molto importante ripercorre i suoi passi, perché la situazione che dovettero affrontare questi compagni è in tutto simile alla nostra. L’anarchismo che si riuniva a Londra non era l’anarchismo individualista, ma la frazione più radicale del movimento operaio organizzato. Nondimeno questi compagni ebbero il coraggio di fare i conti con la realtà e di trarne le dovute conseguenze. L’anarchismo viveva un periodo di importante crisi di prospettive: la stagione dell’insurrezionalismo sociale volgeva al termine! Le insurrezioni tentate dopo la Comune di Parigi erano all’angolo. La socialdemocrazia cominciava quell’inesauribile processo di corruzione delle forze proletarie, cooptandole nella legalità borghese. Per un lungo periodo la prospettiva di una insurrezione popolare, di massa, vittoriosa che abolisse lo Stato e proclamasse l’anarchia sarebbe stata impraticabile.
Cosa fecero questi compagni? Si arresero? Si richiusero nell’attendismo? Fecero un compromesso con la difficile realtà sociale? Alcuni sì, come Andrea Costa che passerà col PSI. Quella crisi dell’intervento sociale insurrezionalista anarchico durò decenni! Non tutti seppero resiste. La gran parte di loro però lo fece. Fu il Congresso di Londra a teorizzare la propaganda col fatto. Le masse non sono pronte per la rivoluzione sociale? Noi non le aspettiamo, ma agiamo. E nell’agire, però, facciamo gesti di propaganda, chi vuol capire capirà. Il congresso di Londra fu una prova di debolezza, come oggi teorizzano i sedicenti anarchici ormai passati al riformismo? Assolutamente no: fu il riconoscimento di un momento di debolezza, dal quale si uscì con un’azione di forza.
Così inizia il proclama del Congresso di Londra: «L’Associazione internazionale dei Lavoratori ha riconosciuto necessario unire alla propaganda verbale e scritta la propaganda dei fatti». Perciò è necessario «fare tutti gli sforzi possibili per propagare con degli atti l’idea rivoluzionaria e lo spirito di rivolta in quella grande frazione della massa popolare, che non prende ancora parte attiva al movimento, e si fa delle illusioni sulla moralità e sull’efficacia dei mezzi legali. Uscendo dal terreno legale, sul quale s’è restato in generale fin’oggi, per portare la nostra attività sul terreno dell’illegalità che è la sola via che meni alla rivoluzione – egli è necessario di ricorrere a tutti i mezzi che sono conformi a questo scopo». E di cosa stiamo parlando i compagni ce lo dicono molto chiaramente quando si accenna al fatto che «le scienze tecniche e chimiche avendo già resi servizi alla causa della rivoluzione, ed essendo chiamate a renderne ancora dei più grandi in avvenire» si raccomanda «di dare un gran peso allo studio e alle applicazioni di queste scienze, come mezzo di difesa e d’attacco». Chiaro?
Mentre si svolgeva il Congresso di Londra, a Napoli Il Grido del popolo ospitava un articolo di Carlo Cafiero, nel quale si teorizzava la formazione di piccoli gruppi: «Dieci uomini, sei uomini possono compiere in una città fatti che possono trovare un’eco in tutto il mondo».
Preme ricordare che Carlo Cafiero fu uno dei teorici del comunismo anarchico, l’uomo che aveva già scritto il Compendio al Capitale di Marx. E che a Londra si stava riunendo l’avanguardia della classe operaia europea, quello che rimaneva dell’Internazionale dopo il tradimento del blocco socialdemocratico-marxiano.
Questi compagni non erano individualisti per fede, ma esponenti della lotta di classe che individuarono nella propaganda col fatto il modo per far sopravvivere l’anarchismo durante il lungo riflusso che coincise con lo sviluppo dell’imperialismo europeo. Il riflusso durò fino allo scoppio della Grande guerra. Naturalmente non fu un movimento coerente, ci furono esplosioni sociali, come i moti del pane repressi nel sangue da Bava Beccaris. E proprio per vendicare quel sangue che Gaetano Bresci uccise Umberto I. Poi un nuovo lungo riflusso fino ai mesi precedenti alla guerra, dove soprattutto grazie all’anarcosindacalismo (l’USI in Italia, la CNT in Spagna), l’anarchismo conquistò milioni di proletari su posizioni non di compromesso ma di azione diretta.
La nostra situazione è del tutto simile a quella vissuta da quei compagni. Andiamo verso l’affermazione di un nuovo autoritarismo su base nazionale. Andiamo verso una grande guerra, la peggiore mai vista dall’umanità. E ci andiamo in un momento in cui siamo «all’angolo». Incomprensibili a livello di massa e totalmente divisi al nostro interno. La propaganda col fatto può essere quella bussola che andiamo cercando.
Propaganda col fatto, contiene la parola «propaganda». Significa che le azioni dirette devono essere tese ad uno scopo di comunicazione, fra rivoluzionari e con quei pochi sfruttati che vogliono ascoltarle. Se ne facciano una ragione i predicatori dell’anonimato. Dobbiamo fare tutti uno sforzo antidogmatico: si può uscire, ogni tanto, dalla narrazione dominante di uno scontro fra borghesia nazionalista e borghesia internazionalista, dalla quale siamo oscurati, anche con il clamore. Vanno totalmente ripensati i nostri dogmi. Quando la fase nichilista finirà, chi non è impazzito ricorderà le parole, gli atti, la coerenza degli anarchici. Gli unici che potranno rivendicare di non essere mai stati al soldo di nessun padrone. Allora anche una lotta di massa potrà finalmente tornare ad essere radicale nei mezzi e negli obbiettivi.
XII
Violenza di massa, violenza individuale. Il rapporto è dialettico. Bisogna quindi toglierci dalla testa la dicotomia tra un insurrezionalismo sociale che aspetta le masse ed uno antisociale che fa la propaganda col fatto. Il Congresso di Londra coincise colla crisi dell’insurrezionalismo sociale Ottocentesco, diede la bussola per superare questa crisi, la propaganda col fatto, grazie alla quale pure se isolato l’anarchismo continuò a parlare agli sfruttati con le proprie azioni; alla fine di questa crisi però l’anarchismo visse il momento di massima partecipazione di classe sul terreno della lotta violenta per la rivoluzione, che durò dal 1914 al 1937. Senza la propaganda col fatto, se l’anarchismo fosse sparito in attesa di tempi migliori, nel 1914 non sarebbe mai tornato, dal nulla. Oggi non ci sarebbe, semplicemente, più l’anarchismo.
Il periodo che ci aspetta fortunatamente sarà meno lungo di quello che va dal 1881 al 1914. Siamo in un epoca storica nella quale, come un computer, anche la storia processa i passaggi logici in maniera molto più celere. Ma ci sarà comunque uno stacco logico-temporale, nel quale come abbiamo osservato saremo fuori dal discorso pubblico. Noi proponiamo di affrontarlo con la propaganda col fatto, una risposta strategica e passionale allo stesso tempo. L’azione diretta individuale o di piccoli gruppi.
Questo non significa che ci sia una sorta di «mannaia» che divide nettamente e meccanicamente i due momenti, il momento della propaganda col fatto e quello della violenza di massa. La nostra è una valutazione di massima, diciamo così. Nel mentre un discorso pubblico – non minimalista anche se in condizioni di difficoltà – andrà comunque tenuto.
Anche fra il 1881 e il 1914 ci furono numerosi momenti insurrezionali di massa. Fra cui proprio quei moti del pane che spinsero Gaetano Bresci al suo gesto di vendetta individuale. Quello che noi proponiamo, a livello di «intervento di massa», passateci il termine, è la costruzione di «strutture» per l’autodifesa e la rappresaglia.
Da alcuni anni ormai si susseguono episodi di aggressione da parte del blocco dei proprietari contro gli ultimi e contro coloro che si organizzano per sollevare la testa. L’aggressione di sindacalisti, persino il loro assassinio come è avvenuto questa estate in Calabria, ormai si ripetono ad un ritmo crescente. La stessa legge sulla legittima difesa, al di là di simpatiche battute (del tipo: occhio sbirri a quando ci entrate in casa), è proprio espressione di uno Stato che, vedendo crescere la miseria e la disperazione, autorizza i proprietari a difendersi con le armi. Potremmo dire: non siamo al fascismo, ma ai pistoleros. Contro i pistoleros spagnoli la CNT organizzò i Comitati di Difesa e la FAI i gruppi di affinità. Sono esperienze che richiamano la necessità di organizzare forme di autodifesa e di attacco.
Torniamo al presente. Le lotte dei facchini hanno visto l’arrivo di vere e proprie squadre di aggressori, che hanno attaccato i picchetti, coadiuvati dalla polizia, per disperdere gli scioperanti. Sembra ci siano una o più centrali, nel Sud Italia, di gangster che si sono professionalizzati nell’intervento violento e illegale contro gli scioperanti. Sindacalisti che sono stati attirati in trappola e mandati all’ospedale, in un caso addirittura tentandone l’omicidio. Tentativi di investimento con la macchina al ritorno a casa. Minacce di morte ai familiari. Di fronte a tutto questo le burocrazie sindacali, anche dei sindacati cosiddetti conflittuali, si sono limitate a risposte deboli: il vittimismo; nel migliore dei casi accompagnato da una reazione arrabbiata ma legale o quasi (uno sciopero selvaggio, un blocco stradale, ecc.). Il tema dell’autodifesa e della rappresaglia è del tutto assente da ogni discussione. Di più, è bandito il solo tentativo di metterlo all’ordine del giorno, si viene messi alla porta, spesso spalleggiati da quei gruppi dell’antagonismo che fanno da sponda politica a questi sindacatini.
Noi pensiamo che in questo periodo più o meno lungo – durante il quale la propaganda col fatto sarà la migliore occasione per scuotere davvero le cose e per parlare agli sfruttati – se pur in condizioni di estrema minorità, bisognerà anche fare agitazione nelle lotte a favore della costruzione di strumenti per l’autodifesa e la rappresaglia. E che, contro tutto e tutti, contro i sindacati e i capetti, quando ci sono le forze, in maniera informale, vada cominciato ad operare in questo senso, senza il bisogno di alcuna «autorizzazione». Anche senza il consenso della struttura di base che si prova a difendere o a vendicare da una aggressione. Si parte e si torna quando lo decidiamo noi.
Le due cose, violenza individuale e violenza di massa, non sono dunque separabili. Non sono una scelta, non sono una questione di gusti: fragola o nocciola. Sono tattiche da alternarsi in base a quale strategia si vuole operare, in base all’analisi del momento.
Gli individualisti dei nostri tempi dovrebbero ricordare l’opera del gruppo individualista milanese, dove si trovava anche Bruno Filippi, durante il Biennio rosso. Durante lo sciopero dei metallurgici, Filippi aggredisce l’industriale Breda, sfregiandogli il volto col vetriolo e facendo esplodere un ordigno nel giardino della sua villa. L’iconoclasta rivendica apertamente la rappresaglia: «Mentre i signori se la spassano al Cova e al Biffi, il povero scioperante ingozza riso e stringe la cintola». E tutti sappiamo come morì Bruno Filippi. Ancora un esempio dal Biennio rosso milanese. Il Prefetto Flores emana un decreto che vieta agli anarchici di manifestare. I socialisti in solidarietà con gli anarchici convocano un comizio il 22 giugno 1920, durante il quale viene fatto salire a parlare sul palco Errico Malatesta. L’accordo fra socialisti e «dirigenti» anarchici (sic) è che, in cambio di questa copertura legale, gli anarchici si sarebbero impegnati ad accettare la natura statica della manifestazione, quindi di non partire in corteo e soprattutto di non dare luogo a scontri. Malatesta tra le altre cose parlando alla folla di 20 mila persone propone di allargare lo sciopero dei metallurgici, di dare esso una forma generale e insurrezionale. Socialisti e CGL censurano la proposta. Ed è in questa occasione che alcune migliaia di anarchici e di proletari incazzati lasciano la piazza e partono in corteo non autorizzato. Alla testa del corteo ci sono proprio il gruppo degli individualisti milanesi, di fatto formando una sorta di servizio armato di difesa. Alla vista dei carabinieri si innalzano le barricate. Gli individualisti sono in prima fila, sparano contro i carabinieri e lanciano bombe, aspettano che la folla si metta in salvo e per ultimi lasciano le barricate. Sembra che, letteralmente, ultimi a lasciare le barricate saranno due compagni come Mariani e Aguggini, futuri attentatori del Diana. Fu uno dei rari casi dove morirono più carabinieri che operai.
Non attendevano le masse, erano espressione della generazione cresciuta nell’infanzia pacifica dell’era giolittiana, dove la quiete sociale era rotta pressoché solo dalla violenza individuale degli anarchici, mentre i socialisti prendevano parte alle ruberie del Ministro della malavita, come venne definito Giolitti. Ma quando le masse si misero in moto, senza tante teorizzazioni, agirono, useremo una parola che vi farà incazzare tantissimo, letteralmente da «avanguardia».
Tratto dal numero 3 del giornale anarchico in lingua italiana “Vetriolo”, febbraio 2019.